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Reddito Minimo

Perché le tesi tassiole di Alesina e Giavazzi non convincono. L’analisi di Polillo

Il commento di Gianfranco Polillo

L’ultimo editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, sulle pagine de Il Corriere della Sera, fornisce dati impressionanti sulla (cattiva) redistribuzione del reddito. In tutto il pianeta le disuguaglianze sono aumentate. Anche se gli ex Paesi del “Terzo mondo” stanno vivendo una stagione di crescente benessere. “La differenza nel reddito pro capite tra un cittadino statunitense – viene ricordato – e uno indiano si è dimezzata: dal 24 a 12 volte. Il risultato è ancora più straordinario per Cina: da 24 volte a 5 volte”. Naturalmente, all’interno di quelle realtà, le disuguaglianze non sono diminuite. Il progresso economico ha favorito la nascita di una classe media che, in qualche modo, ha negato in radice le vecchie profezie di Carlo Marx sul proletario, come classe universale. Ma questo è il prezzo che si paga per lo sviluppo. La crescita non è mai armonia sociale: è squilibrio dinamico dei precedenti rapporti di produzione.

Nelle vecchie metropoli, un tempo imperialiste, l’accumulo di ricchezza nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di Paperoni è divenuto addirittura sfacciato. Le politiche fiscali hanno, in qualche modo, cercato di contenere il fenomeno. Ma con risultati più che circoscritti. Il suggerimento, che proviene dai due autorevoli studiosi, è quello di accrescere la tassazione con l’intento di favorire coloro che sono, di fatto, esclusi da ogni prospettiva di benessere. Ovviamente le giovani generazioni. Si tratterebbe, allora, di colpire il trasferimento, mortis causa, del patrimonio, con imposte di successione in grado di fornire i mezzi necessari per rimettere in moto l’ascensore sociale. “Certo, le tasse sull’eredità – sostengono – così come tutte le imposte hanno effetti distorsivi: riducono il risparmio dei più ricchi. Ma è un costo che vale la pena di sopportare, soprattutto oggi che più del risparmio vale il consumo”.

Che cos’è che non torna nel ragionamento? La sottovalutazione di una leva potente come quella dello sviluppo. Che, nell’immediato, può determinare contraddizioni sociali, anche commendevoli. Ma che, nel medio periodo, ha una forza che non è paragonabile a nessun tentativo di “semplice” redistribuzione sociale. Che deve essere fatto, con tutti gli strumenti a disposizione del welfare state. Ma non fino al punto di bloccare gli animal spirits che regolano il complicato metabolismo dell’economia. Del resto i dati forniti, seppure in modo inconsapevole, forniscono elementi a sostegno di questa tesi. Il miracolo cinese o quello indiano, per riprendere le loro argomentazioni, non è figlio del caso. Ma, appunto, di un tasso di crescita che, dall’inizio della globalizzazione, ha scardinato le vecchie gerarchie internazionali.

La cosa più sorprendente è il sottovalutare le caratteristiche specifiche del nuovo processo tecnologico. Che, a differenza del passato, non richiede tanto la disponibilità di risorse naturali, quanto il buon uso di un’intelligenza collettiva. Che le politiche economiche devono essere in grado di promuovere. Specie nei Paesi, del “vecchio” Occidente, in cui l’accumulo di conoscenze non ha paragone con quello delle “economie emergenti”. Il caso della Germania, da questo punto di vista, è indicativo. La principale potenza manifatturiera del mondo è costretta a rincorrere la Cina sulla rete digitale 5G. Di fatto consegnando il Paese alla Huawei. La società che ha “l’obbligo legale – come ricorda Federico Fubini, su quelle stesse pagine – di cooperare con il partito comunista di Pechino”. Che sarà quindi in grado di conoscere vizi e virtù dei suoi abitanti.

È ragionevole, tutto ciò? Forse la Germania non aveva le risorse finanziarie per sviluppare quelle tecnologie? Forse le università cinesi sono meglio posizionate? Scuse risibili: basti considerare il forte attivo della bilancia dei pagamenti di quel Paese e l’eccesso di risparmio interno che ne deriva. Risparmio congelato ai fini del possibile sviluppo, in omaggio ad una vecchia ortodossia sparagnina. In Italia, purtroppo, le cose non vanno meglio. Giuste le critiche – sempre da parte di Alesina e Giavazzi – a “quota cento”, ma lo stesso dovrebbe valere per il (non citato) reddito di cittadinanza. Ma è forse questo l’ostacolo principale che impedisce all’Italia una maggiore speranza di futuro?

Sia l’Ocse, che solo qualche giorno fa Standard & Poor’s, hanno fornito la diagnosi più vera del male che ha colpito le giunture dell’Italia. Dal 1995, un’eternità, il suo tasso di crescita è stato superiore solo al Brasile ed all’Argentina. L’agenzia di rating americana, rincarando la dose per il 2019, ha tolto il Brasile ed inserito la Turchia. Ma quel terzultimo posto sembra essere insuperabile. Il Fmi, con le sue statistiche di lungo periodo, dimostra che il massimo tasso di crescita (4 per cento del Pil) si è avuto solo nel 1988, Il lascito del Governo Craxi: da allora un lento declinare verso il fondo melmoso di una stagnazione decennale. La dimostrazione che qualcosa si rotto nel meccanismo non solo economico, ma culturale, che dovrebbe guidare il cammino di un popolo.

Beniamino Andretta, che in quegli anni, rappresentò la punta della contestazione a quel Governo, era solito rivolgersi ai propri avversari, definendoli come “colleghi ossessionati dall’ideologia della crescita a ogni costo”. Tesi che ha fatto scuola, fino al punto da determinare la situazione che si è appena ricordata. La verità è che la torta si può tagliare in fette sempre più piccole, per soddisfare il giusto anelito di giustizia. Ma insistendo nell’operazione, restano solo briciole che non saziano la fame.

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