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Perché in politica economica lo schema del poliziotto buono (Tria) e del poliziotto cattivo (Salvini) non funziona

Che cosa non convince Gianfranco Polillo delle recenti tesi di Massimo Giannini del quotidiano la Repubblica sulla politica economica del governo Conte

Massimo Giannini è uno di quei giornalisti d’assalto. Etica della convizione. Bianco o nero. Nessun dubbio, ma granitiche certezze. Inutile aggiungere che nei suoi scritti c’è sempre una bestia nera da colpire. E che, il più delle volte, questa ha il volto di Matteo Salvini. Mentre i 5 stelle sono trattati come coloro che stanno a guardare. Come se non fossero questi ultimi ad avere le chiavi della politica economica in Italia. Che poi non trovino la serratura giusta per aprire la porta della promessa felicità, è tutto un altro discorso.

Questa volta, il nostro, per continuare nella sua opera di demolizione, utilizza la figura del ministro dell’Economia, Giovanni Tria. “Parla poco, ogni tanto farfuglia, qualche volta si inceppa. Come nella strepitosa imitazione di Crozza, spesso si nasconde dietro i suoi occhiali e la sua cartella di pelle, per non dire quello che pensa davvero”. Ma nel disastro generale – continua – “è l’unico che riesce comunque a tenere a galla un Paese altrimenti destinato all’abisso”. Gli altri, infatti, i “gemelli del deficit, Salvini e Di Maio” (l’ordine di citazione ha una sua importanza) vanno in giro “con lo scolapasta in testa e spade di legno”. Moderni “Don Chisciotte” contro i mulini a vento di un Europa, che non fa che sconfiggerli.

Fin qui la sobria rappresentazione della realtà politica italiana. Dietro le quinte l’idea di vivere nel migliore dei mondi possibili. In cui l’unica cosa da fare è rispettare le tavole della legge. Quelle imposizioni venute dall’estero, alla fine accettate, non avendo l’Italia trovato la forza necessaria per iniziare una discussione di merito in grado di modificarle. Non per il gusto di farlo, ma perché incongrue con la realtà economica del nostro Paese. Fosse stata questa la scelta di Mario Draghi, non avremmo avuto l’adozione di misure non convenzionali. La Bce si sarebbe mossa lungo la strada tracciata da Jean Claude Trichet. Forse l’euro sarebbe sopravvissuto. Ma quante Grecie la Bundesbank avrebbe, ora, sulla coscienza?

Il fatto è che tentare nuove strade non è mai facile. Si può sbagliare. La cosa più probabile. Specie se non si ha contezza della complessità dei problemi che si hanno di fronte. E che la linea di politica economica di quest’ultimo anno abbia dimostrato tutti questi limiti è più che evidente. Ma da qui il teorizzare una nuova ortodossia nell’ossessione dei dati, quali quelli relativi alla sola finanza pubblica, avulsi da un contesto più generale, è forse addirittura diabolico. Lo è soprattutto nei confronti di quei milioni d’italiani (piccolo dato trascurabile) che hanno detto basta ed invocato un cambiamento di rotta.

Naturalmente si può sempre pensare che il voto elettorale sia ormai un lusso che l’Italia non può permettersi. Che il pendolo si sia definitivamente spostato verso Bruxelles. Per cui non si può fare atto che seguirne le relative prescrizioni, in nome non si sa bene di che cosa. Visti i limiti intrinseci di quelle ricette. Ma se si conserva ancora un minimo di spirito democratico, è dalla volontà degli elettori che bisogna partire. Evitando, per quanto possibile, di ripetere gli errori di Alexis Tsipras. Oggi il grande sconfitto nella partita politica del suo Paese.

Visti in questa chiave, i problemi italiani sono molto più complicati. Lo schema del poliziotto buono (Tria) e del poliziotto cattivo (Salvini) non funziona. Perché entrambi, e con essi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a norma di Costituzione, sono tutti ugualmente responsabili dell’azione del governo. Le divergenze tra ministri hanno un loro peso, ma è solo politico. Mentre sul terreno istituzionale non rilevano, almeno fin quando non si traduco in atti conseguenti. Ai quali, tra l’altro, partecipano soggetti istituzionali diversi: dal presidente della Repubblica, alle due Camere. Solo per citarne i più importanti. Non esiste, quindi, “alcuna sorta di governo ombra”, come dice Giannini. Ma un limite generale che travalica gli stessi confini della politica.

La cosa che più impressiona, in Italia, è l’assenza di qualsiasi dissent opinion strutturata. L’indicazione di una via realistica ed alternativa da perseguire. C’erano stati i tentativi di Paolo Savona, purtroppo affogati in un spazio quasi cosmico. Dall’analisi degli squilibri macroeconomici italiani alla politica della Bce. Troppa carne al fuoco. Da allora alcune di quelle suggestioni (il surplus con l’estero, l’eccesso di risparmio inutilizzato, un ritmo di crescita condizionato dal mal funzionamento dei meccanismi di mercato e così via) fanno capolino, qua e là, nella pubblicistica. Ma restano semplici episodi. Lo stesso eccesso di carico fiscale, che rappresenta una formidabile strozzatura alla crescita del Paese, è analizzato esclusivamente in chiave di giustizia sociale. Se risponde o meno ad un astratto criterio ridistribuivo. Ma senza alcuna connessione (lasciamo stare la curva di Laffer) al tema della crescita e dello sviluppo.

Colpa di Salvini? C’è forse qualcuno che può tirarsi fuori, rimestando vecchie ricette? Si abbia almeno il pudore di analizzarne gli effetti. Dal 2011 l’Italia si è completamente fermata. Il reddito pro capite – unico Paese dell’Eurozona – è progressivamente diminuito. Siamo diventati l’ultima ruota del carro. Cosa che non era mai successa nemmeno durante i “famigerati” anni della Prima Repubblica. Il rapporto debito-Pil, che dal 2002 al 2007, era diminuito scendendo sotto la soglia del 100 per cento, ė cresciuto di quasi il 35 per cento. “No, grazie”, caro Giannini, abbiamo già dato.

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