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Fmi

Vi spiergo perché i giudizi del Fmi sull’Italia sono azzardati

Il commento di Gianfranco Polillo, già sottosegretario all'Economia

Orientarsi nelle più recenti polemiche tra gli esponenti pentastellati ed il Resto del mondo – che sia la Francia o il Fondo monetario internazionale, poco importa – è impresa quasi disperata. Il gioco di specchi è continuo. La cattiva oratoria preelettorale è debordante, rispetto alla reale natura dei problemi. La conseguenza è un crescente isolamento dell’Italia in un momento in cui le difficoltà economiche emergono con sempre maggiore evidenza, restituendoci l’immagine di un Paese sempre più fragile. Che per affrontare i problemi reali avrà bisogno non di una minore, ma di una maggiore solidarietà internazionale. Basti pensare a quella che potrebbe essere la reazione dei mercati, qualora la speculazione dovesse nuovamente accanirsi contro la montagna del debito pubblico italiano.

La giovane età dei protagonisti, al comando del vascello italiano, impedisce loro di ricordare quanto accadde nel lontano 1993, quando Luigi Di Maio aveva ancora i pantaloni corti. Allora la Bundesbank salvò il franco francese, ma si rifiutò di fare altrettanto per l’Italia. La lira subì una svalutazione del 30 per cento che minò definitivamente le basi della Prima repubblica. Difficile che ciò possa nuovamente accadere. Sarebbe tuttavia saggio non scordare le esperienze negative del passato. Di solito è buona regola non cercare nuovi nemici, quando si è sotto scacco, per motivi che non c’entrano con le complicate geometrie internazionali. Che bisogno c’era di accusare i francesi di neo-colonialismo, nei confronti dei Paesi africani che fanno parte del Cemac e dell’Uemoa, con argomenti risibili, come quelli indicati a proposito del dominio monetario? E su cui vale solo la pena stendere un velo pietoso.

Più complicato il rapporto con il Fmi, le cui valutazioni, in effetti, sono state sopra le righe. Accusare l’Italia di poter essere uno dei principali fattori di crisi, insieme alla Brexit, per gli equilibri mondiali è stato un azzardo. Può un piccolo Paese, il cui prodotto interno lordo è pari ad appena l’1,7 per cento di quello mondiale, rappresentare una minaccia così grande? Preoccupazioni di questo tipo possono venire dalla Cina o dall’intera Europa. Ma prima che l’eventuale crisi italiana abbia un effetto così profondo sugli equilibri dell’Eurozona si può intervenire, come già è accaduto in passato – do you remember il “whatever it takes” di Mario Draghi? – ma, proprio per questo motivo, sarebbe saggio non tirare, inutilmente, calci sotto il tavolo.

La reazione di Giovanni Tria, uomo mite e schivo da manifestazioni muscolari, ha dimostrato che la misura era colma. All’invettiva contro i “poteri forti”, che bastonano il Paese, ha preferito il rigore del ragionamento. Nessun pericolo per le finanze italiane. L’eventuale peggioramento del clima congiunturale non modifica i parametri del deficit strutturale di bilancio corretto per l’andamento del ciclo. Quindi: nessuna manovra correttiva, come da taluni paventato. Ragionamento ineccepibile nel quadro delle complicate geometrie che regolano la finanza pubblica. Ma anche solo in parte tranquillizzante.

Una riduzione del tasso di crescita, che secondo le stime della Banca d’Italia comporterà anche un contenimento del tasso di inflazione, è destinato a determinare una minor crescita del prodotto interno lordo, in termini nominali. Si avrà pertanto un peggioramento del rapporto debito pubblico-Pil. Sempre che gli spread non rimbalzino verso l’alto, aumentando la spesa per interessi. Il problema della violazione della regola del debito, che ha pesato ai fini della possibile “procedura d’infrazione”, scacciato dalla porta, rischia di rientrare dalla finestra. La maggioranza parlamentare spera nelle prossime elezioni, per neutralizzare i “rigoristi”. Ma se ciò non dovesse accadere, i nodi verranno al pettine. Ed allora: comunque prudenza. Meglio non vendere la pelle dell’orso, prima di averlo ucciso.

Di diverso avviso, il prode Di Maio. Cavalcando furbescamente l’autocritica di Jean-Paul Juncker a proposito dei limiti della politica di austerità nei confronti della Grecia (suggerita dal Fmi ma avallata dalla stessa Commissione europea) è andato giù duro. Vogliono ripetere i nefasti di quella politica: ha commentato. Cercando, in qualche modo, di cambiare le carte in tavola. Sennonché la critica del Fondo ha un diverso fondamento. Suo bersaglio è la bassa crescita del nostro Paese: ormai ultimo nelle classifiche internazionali. La presunta manovra espansiva, tratteggiata nella legge di bilancio, semplicemente, non esiste. Il “modello” seguito è solo una replica, come nel caso del decreto legge su Carige, di quanto già si è visto negli anni precedenti.

Secondo le ultime previsioni della Banca d’Italia, ma avallate da analoghe indicazioni di altri centri studi indipendenti (Cer e Prometeia), i consumi delle famiglie, quest’anno, dovrebbero aumentare di un modesto 0,6 per cento, nonostante il varo del reddito di cittadinanza. Il tasso di crescita dell’occupazione, che è la vera variabile indipendente che traina i consumi, rallenterebbe rispetto al 2018, mangiandosi quel poco di buono che si otterrà con la semplice redistribuzione del reddito. Ma c’è un dato che fa ancora più impressione.

La vera palla al piede dell’economia italiana – il surplus della bilancia dei pagamenti – è destinato a crescere ulteriormente. Sarà pari al 2,8 per cento del Pil nel 2019 ed ancor di più nei due anni successivi. Di nuovo un eccesso di risparmio che non trova in Italia i necessari canali d’investimenti ed è, quindi, destinato a prendere la via dell’estero. Ancora il dramma dell’artificiale scarsità nell’abbondanza che una diversa politica economica avrebbe potuto alimentare. Quelle mille occasioni perse che ormai datano dal 2012. Che i vecchi politici italiani non hanno saputo cogliere. E per questo hanno pagato. Ma che i nuovi dimostrano di non saper fare meglio.

Ed ecco allora spiegato il tentativo di buttare la palla in tribuna, nel fuoco di una polemica sempre più gridata. Le accuse temerarie contro l’inaffidabilità delle previsioni, su cui sembrano concordare tutti coloro che si occupano di economia. Tutti prevenuti contro il “Governo del cambiamento”: secondo le accuse del Movimento, che costringono la stessa Lega ad un’imbarazzate rincorsa. Alla fine, tuttavia, la realtà si imporrà comunque. Non ci vorrà molto tempo per capire ciò che bolle, veramente, in pentola. Ed allora si saprà che la ricerca della pietra filosofale, destinata a trasformare il piombo della repubblica parlamentare nell’oro della democrazia diretta, resta soltanto un leggendario retaggio del passato.

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