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Tunisia

Perché è zeppo di incognite e confusioni il Piano governativo di ripresa e resilienza (Pnrr)

Gianfranco Polillo ha letto il “Piano nazionale di ripresa e resilienza" (Pnrr). Ecco la sua analisi

Non è facile individuare la logica su cui è stato costruito il PNRR. Al secolo: il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” che dovrebbe garantire il miglior uso possibile delle risorse, stanziate dall’Unione europea, per far fronte ai disastri prodotti dalla pandemia. Cominciamo dalle risorse. Ammonteranno, come è ormai noto, a 208,6 miliardi, di cui 63,8 sotto forma di aiuti (grants) ed il resto, per un valore pari a 144,8 miliardi a debito (loans). Una percentuale, quest’ultima, che è pari a circa il 70 per cento del totale. Ed è qui che nasce un primo problema.

La loro regolazione contabile, secondo gli accordi europei, sarà definita nel dettaglio da Eurostat, a seguito delle necessarie consultazioni. Al momento è quasi certo che i grants non saranno conteggiati nel calcolo del debito pubblico, mentre lo saranno i loans. Per cui il governo è stato fin da ora costretto a mettere le mani avanti. “Va tuttavia considerato – è scritto nel documento – che i prestiti erogati all’Italia dalla Commissione europea, se non compensati da riduzioni di altre spese o aumenti delle entrate, contribuiranno ad accrescere il deficit della PA ed all’accumulazione di debito pubblico”. Ergo: “al PNRR dovrà pertanto affiancarsi una programmazione di bilancio volta a riequilibrare la finanza pubblica nel medio termine”.

Fermiamoci un attimo. Cosa significa tutto questo? Che da un lato potremo, per così dire, “scialare” nell’utilizzo dei fondi europei. Come è stato fatto in passato per quelli strutturali, messi a disposizione per le aree meno sviluppate. Ma dall’altro lato sarà necessario tirare la cinta, nell’ordinaria amministrazione, per far quadrare i conti. Quello che si darà con la mano destra dovrà, in qualche modo, essere recuperato con la sinistra. Il PNRR promette che il giusto equilibrio tra queste due opposte tendenze sarà già trovato “nella Nota di aggiornamento del DEF di prossima pubblicazione” in cui sarà dettagliato “il sentiero di rientro dal deficit per gli anni 2021 – 23”. Confessiamo, sulla scorta di precedenti noti, tutto il nostro scetticismo.

Nella complicata geografia del Piano, articolato in sfide (“per contribuire a risolvere – ma forse era meglio dire “vincere” – le sfide strategiche del Paese), missioni (“e ambiti tematici dei cluster”), progetti e politiche di supporto, si sono seguite le orme europee. Vale a dire il metodo che si è osservato nelle “raccomandazioni specifiche per ciascun Paese”. Un lungo elenco delle cose da fare. Una sorta di grande menù in base al quale, come al ristorante, ciascun Paese poteva manifestare le proprie preferenze. Non era, infatti, compito della Commissione europea indicare le necessarie priorità, né gli eventuali criteri di scelta. Pena: una pesante violazione della sovranità di ciascuno Stato membro.

Ma se questo criterio era giusto per l’Europa, non lo è certo per il governo al quale le raccomandazioni si rivolgono. Al contrario, in questo caso, le scelte sono obbligate. Si fa questo, ma non quello. Tutto dipende non solo dall’urgenza dei problemi, dalle sensibilità di ciascun Paese, ma soprattutto dalla disponibilità delle risorse esistenti. Ed è proprio questo il dilemma che fin da oggi è destinato a materializzarsi sul tavolo di Palazzo Chigi ed a Via XX Settembre. Vista la relazione destinata ad intercorrere tra l’uso dei prestiti europei e le successive manovre di bilancio, orientate in una direzione opposta e contraria. “La forte espansione del deficit – ricordava mestamente il documento – prevista per quest’anno” già c’è stata.

Date queste premesse ci saremmo aspettati non un elenco più o meno sterminato, come quello recato dal documento, ma una selezione maggiore fin dall’inizio. E poiché comprendiamo i tormenti della politica, se proprio era necessario non scontentare nessuno (ministri, sottosegretari, capi popolo e lobbisti), che almeno fosse stato indicato un criterio. Tra i diversi progetti si sceglieranno quelli che avranno un impatto migliore sulla crescita del Pil. Oppure comporteranno una minore esposizione finanziaria. Oppure, trattandosi di investimenti, un rendimento maggiore. Insomma qualcosa di concretamente misurabile con il bilancino dell’economista. Piuttosto che continuare a declamare, come un disco rotto, il grande valore del green e della digitalizzazione.

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