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Perché Conte su Consiglio Ue e Mes non può fuggire dal Parlamento

La legge del 202 che regola i rapporti tra Parlamento e governo nei confronti dell’Europa implica che le Camere devono approvare una mozione in vista del Consiglio europeo del 23 aprile. L'analisi di Gianfranco Polillo

Se non vi fosse di mezzo una legge, la strategia del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sarebbe comprensibile. Una progressiva ritirata. Forse anche poco onorevole, vista la sicumera con cui determinate posizioni erano state assunte: no al Mes, ma solo Eurobond. Perché il Mes, anche qualora fosse approvato – ma il voto italiano al pari di quello di qualsiasi altro Paese europeo è determinante – non sarà usato dall’Italia. Che tradotto, salvo ulteriori ripensamenti come quelli in atto, significherebbe rinunciare, in partenza, a 37 miliardi di euro ad un tasso d’interesse particolarmente vantaggioso. Sempre che la condizionalità risulti essere, senza equivoci, quella sbandierata.

Ma purtroppo la legge esiste. È la n. 234 del 2012 che regola i rapporti tra Parlamento e Governo proprio nei confronti dell’Europa: un testo organico composto di ben 61 articoli. In vista del prossimo Consiglio europeo del 23 aprile, il presidente del Consiglio dovrà recarsi in Parlamento per esplicitare la linea che intende seguire. Che succederà al termine della relativa discussione? L’articolo 4 della legge richiamata stabilisce che ”prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, il Governo illustra alle Camere la posizione che intende assumere, la quale tiene conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati.” Sembrerebbe, quindi, che in sintonia con le prassi parlamentari (art. 118 e 105 dei Regolamenti parlamentari di Camera e Senato) sia possibile presentare una specifica risoluzione, che espliciti il da farsi.

Per evitare che questo avvenga, si cerca di derubricare la seduta in semplice “informativa”. Sostenendo che la sede del prossimo Consiglio europeo sarà informale. Tesi difficile da dimostrare, visto che spetta al Consiglio definire le linee strategiche dei provvedimenti su quali dovrà intervenire, in seconda battuta, il Consiglio dell’Unione europea, per la loro traduzione in atti normativi. C’è poi l’ostacolo del successivo articolo 5, in tema di accordi che prevedano modifiche delle regole esistenti in materia finanziaria o monetaria o che “comunque producano conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica”. In questo caso il governo (comma 2) deve tener conto “degli atti di indirizzo adottati dalle Camere”.

Ora è difficile ritenere che il prossimo Consiglio europeo non abbia conseguenze. A seconda che si approvino o meno le modifiche proposte per il Mes, il loro effetto immediato sulla spesa per interessi, da parte dell’Italia, sarà pari a più di 500 milioni l’anno. Essendo questa la differenza tra un finanziamento di 35 miliardi ottenuto ad un tasso dello 0,5 per cento. E quello di mercato, scontando il valore degli attuali spread. Sarà quindi difficile motivare il divieto di presentazione da parte di chiunque di una qualsivoglia risoluzione da sottoporre al voto dell’Assemblea. A meno che non intervenga un accordo all’insegna del fair play, vista l’importanza della posta in gioco.

Prospettiva auspicabile, nell’interesse dell’Italia. Che rischia, tuttavia, di essere vanificata e dalla coda velenosa delle polemiche dei giorni passati. Quel passaggio televisivo del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a reti (quasi) unificate, con insulti, in prima serata, nei confronti dei due leader dell’opposizione: Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Esercizio inutile, anche se originato da un crollo nervoso, dovuto più che altro ai contrasti della stessa maggioranza parlamentare. Ma che oggi potrebbe ritorcersi non solo contro l’avvocato del popolo. Ma a danno dell’intero Paese.

Una mozione parlamentare spaccherebbe definitivamente la maggioranza parlamentare, con esiti imprevedibili per la stessa tenuta del Governo. Rinunciarvi implicherebbe un accordo, seppur mascherato, con l’opposizione. Che non sanerebbe, tuttavia, le fratture programmatiche interne alla maggioranza: con un Pd favorevole al Mes e una parte dei 5 stelle del tutto contrari. Come ribadito, solo qualche ora, fa dal ministro Stefano Patuanelli: non certo figura secondaria del Movimento. Contrasti ben noti, anche in sede europea, e quindi destinati a ridurre il peso negoziale dell’Italia.

Imprudenze e pressappochismo stanno portando l’Italia in un vicolo cieco. Per dimostrare quanto sia stata inopportuna quella sparata televisiva, i cui effetti tossici sono tutt’altro che assorbiti, basti guardare al comportamento olandese: il paladino dei cosiddetti “Stati frugali”. Vale a dire l’alleanza del Nord. Solo qualche giorno fa, il premier olandese Mark Rutte aveva chiesto, ed ottenuto, che si pronunciasse il Parlamento dell’Aia, sia contro gli eurobond che contro l’annacquamento delle condizioni previste nel caso del Mes. Per poi sedersi al negoziato e sostenere che l’Olanda non poteva venir meno ad una decisione del proprio Parlamento. Decisamente altro stile ed altra intelligenza. E pensare che Rutte non è nemmeno uomo di legge, ma un semplice manager.

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