Prosegue il procedimento penale per la truffa dei diamanti che ha visto coinvolte banche e società di vendita e che ha danneggiato migliaia di investitori, fra cui Vasco Rossi e l’imprenditrice Diana Bracco. Dopo qualche anno di indagine la procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per 105 persone e cinque società: Banco Bpm, Unicredit, Mps, Banca Aletti e Intermarket Diamond Business spa (Idb). Stralciata invece la posizione di Intesa Sanpaolo e di Diamond Private Investment spa (Dpi) che hanno chiesto di patteggiare. Nella vicenda peraltro si registra anche l’intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che nel 2017 ha irrogato sanzioni per oltre 15 milioni di euro a Banco Bpm, Intesa Sanpaolo, Montepaschi, Unicredit e ai due broker.
COS’HA DECISO LA PROCURA SUL CASO DIAMANTI
La procura di Milano ha dunque chiesto il rinvio a giudizio per 105 persone e cinque società, di cui quattro istituti di credito, nel procedimento in atto. Come riferito dall’Ansa e dalla Reuters le imputazioni sono truffa, autoriciclaggio e corruzione fra privati, per un presunto ingiusto profitto ai danni dei piccoli investitori, che la procura milanese ha quantificato in circa 500 milioni di euro, 314 dei quali per i broker delle pietre preziose.
Gli imputati sono dirigenti, ex dirigenti, funzionari ed ex funzionari degli istituti di credito e dei due broker di diamanti Le parti lese, che potranno chiedere di costituirsi parte civile, sono 575 clienti delle banche che ritengono di essere stati truffati, e anche l’Antitrust, la Banca d’Italia, le associazioni di consumatori Codacons e Asso-Consum e la società Camelot Holding.
LA VICENDA DEI DIAMANTI
L’inchiesta, che è stata chiusa a ottobre 2019, a febbraio dello stesso anno ha portato al sequestro di oltre 700 milioni a Dpi e alle banche coinvolte. Secondo la procura meneghina sarebbero colpevoli sia i broker sia gli istituti di credito: i primi avrebbero condotto la truffa fino a dicembre 2016 mentre i secondi sarebbero stati consapevoli dell’agire ingannevole. Banche che infatti dal 2017, dopo la multa inflitta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, hanno cominciato a restituire per intero il denaro ricomprando le pietre al prezzo originario. Tutte tranne Banco Bpm che ha riconosciuto la differenza fra il presunto valore effettivo e il prezzo pagato lasciando però i diamanti in mano ai clienti.
COME SI ESPLICAVA LA TRUFFA DEI DIAMANTI
Secondo quanto ricostruito negli atti dell’accusa, gli operatori bancari proponevano ai clienti l’acquisto di diamanti come bene rifugio a liquidabilità certa, che avrebbe garantito rendimenti fra il 2% e il 5%. Quanto al costo, veniva fatto credere che il prezzo pagato fosse il valore effettivo della pietra ma in realtà comprendeva il 20% di Iva, le commissioni alle banche, i costi della società venditrice (assicurazione, deposito). Insomma, dalle perizie effettuate il valore effettivo dei diamanti è risultato tra il 30% e il 50% del prezzo pagato. Se poi il cliente avesse voluto vendere i diamanti avrebbe dovuto pagare ai broker una commissione che variava tra il 7 e il 16%, a seconda della durata dell’investimento.
CHI HA PATTEGGIATO SUI DIAMANTI
Da ricordare, come si è detto, che sia Intesa Sanpaolo sia Diamond Private Investment hanno chiesto il patteggiamento e hanno già ottenuto parere favorevole da parte della procura. In particolare Ca’ de Sass dovrà versare 100mila euro e subire la confisca di 61mila euro come profitto del reato, mentre per Dpi la pena pecuniaria è pari a 34mila euro e la confisca supera gli 88 milioni.
IL CASO BANCO BPM
Un capitolo a parte merita Banco Bpm cui, come ricorda Business Insider, la Procura di Milano nell’ambito del procedimento penale a febbraio di due anni fa ha notificato un decreto di sequestro preventivo per 84,6 milioni e un’informazione di garanzia “per illecito amministrativo per il reato di presunto autoriciclaggio” e “per l’ipotesi di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza”. Stando a quanto si legge nel bilancio del 2020 redatto da Banco Bpm pubblicato a gennaio scorso, nell’avviso di chiusura delle indagini preliminari, “la Procura ha inoltre contestato ad alcuni ex manager e dipendenti del Gruppo il reato di truffa aggravata, autoriciclaggio, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e corruzione tra privati”. Ricorda Business Insider che a maggio 2019 il direttore generale, Maurizio Faroni, aveva rassegnato le dimissioni dal gruppo in quanto sospeso pochi mesi prima perché coinvolto nella vicenda.
In totale erano arrivati “circa 23.700 reclami per un petitum complessivo di circa 700 milioni; di questi circa 1.300 hanno dato luogo a procedimenti civili che vedono la banca convenuta per un petitum complessivo pari a circa 64 milioni”. A gennaio 2021, si rileva, “risultano essere stati definiti reclami e contenziosi per un petitum complessivo superiore a 500 milioni”. Si tratta di cifre considerevoli che spiegano per quale motivo il gruppo guidato da abbia deciso di non rimborsare integralmente i clienti che hanno presentato un reclamo – a differenza di quanto fatto da Intesa Sanpaolo, Unicredit e Montepaschi – ma di analizzare la situazione caso per caso. Banco Bpm ha pure costituito un fondo “diamanti” per i rimborsi che è stato utilizzato per 256,6 milioni e che “sembra proprio coincidere con la cifra che il gruppo milanese ha messo sul piatto per chiudere i contenziosi da 500 milioni: si tratta di poco più della metà del denaro domandato coi reclami.
LA SANZIONE DELL’ANTITRUST E L’INTERVENTO DEL CONSIGLIO DI STATO
Nel 2017 l’Antitrust aveva sanzionato i protagonisti della vicenda per oltre 15 milioni di euro. I profili di scorrettezza riscontrati da Piazza Verdi al termine del procedimento riguardavano le informazioni ingannevoli e omissive diffuse attraverso il sito e il materiale promozionale predisposto in merito al prezzo di vendita dei diamanti, presentato come quotazione di mercato, frutto di una rilevazione oggettiva pubblicata sui principali giornali economici, all’andamento del mercato dei diamanti, rappresentato in stabile e costante crescita, alla facile rivendibilità dei diamanti alle quotazioni indicate e con tempistica certa e infine alla qualifica dei professionisti come leader di mercato.
In realtà l’Autorità aveva scoperto che le quotazioni di mercato erano i prezzi di vendita liberamente determinati dai professionisti in misura ben superiore al costo di acquisto della pietra e ai benchmark internazionali di riferimento e che le prospettive di rivendibilità erano legate solo alla possibilità che il professionista trovasse altri clienti all’interno del proprio circuito. Peraltro l’Agcm aveva accertato che le banche, principale canale di vendita dei diamanti per entrambe le imprese, proponevano l’investimento a una particolare fascia di clientela interessata all’acquisto dei diamanti come bene rifugio e a diversificare i propri investimenti. Nello specifico erano state irrogate sanzioni per 2 milioni a IDB, per 4 milioni a Unicredit, per 3,35 milioni a Banco Bpm, per 1 milione a DPI, per 3 milioni a Banca Intesa e infine per 2 milioni a Montepaschi. Due giorni fa il Consiglio di Stato ha accolto ridotto del 30% le sanzioni comminate dall’Antitrust a Unicredit e a Banco Bpm. Secondo il Consiglio infatti “il ruolo della Banca assume una valenza meno marcata rispetto a quello della società di vendita, essendosi risolto nell’agevolare la vendita dei preziosi”. Dunque il contributo “illecito ma comunque secondario della banca non pare poter giustificare l’applicazione di una sanzione quasi doppia a quella inflitta alla società di vendita, che è l’autrice principale dell’illecito, e ciò anche tenuto conto degli ulteriori parametri valorizzati dall’Autorità”. Per questo, ha concluso Palazzo Spada, la sanzione risultava “irragionevole” rispetto alla condotta “effettivamente ascrivibile”.