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Il dibattito sui chip è un po’ troppo cheap

Considerazioni in libertà e a margine dell'analisi di Alberto Mingardi sul Corriere della sera a proposito del piano Biden per i microchip. La lettera di Francis Walsingham

Caro direttore,

com’era quel detto sul non sommare mele e pere?

Mi è tornato in mente leggendo l’analisi di Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, su L’Economia del Corriere della Sera. Nell’articolo, l’intellettuale liberista sostiene che i sussidi pubblici statunitensi alla manifattura nazionale di microchip stiano rallentando gli investimenti anziché accelerarli. Francamente, non mi pare proprio: secondo la Semiconductor Industry Association (cioè l’associazione che rappresenta l’industria americana – privata, ça va sans dire – dei semiconduttori), il CHIPS Act (cioè il piano di Joe Biden che stanzia 52 miliardi di dollari di incentivi alle fonderie di microchip) ha stimolato investimenti da 250 miliardi di dollari già al dicembre 2022, cioè soli quattro mesi dopo l’approvazione.

Credo di aver capito quale fosse la reale intenzione di Mingardi, e cioè ribadire il primato del libero mercato e dell’iniziativa privata sul dirigismo dei governi. È un messaggio che sostanzialmente condivido, da italiano con formazione anglosassone e da spettatore della realtà (spesso tragicomica) italiana; ma la posizione di Mingardi mi sembra troppo parziale e forse anche un po’ confusa: non si sommano, appunto, mele e pere.

L’Italia e l’Europa non sono gli Stati Uniti, innanzitutto, per quanto riguarda l’invasività dello Stato nei settori produttivi. E poi – anzi: soprattutto – bisogna ricordare che l’obiettivo della manovra di Biden è prima politico e poi economico, e quindi è incomprensibile nella sua essenza se si sposta la lente d’ingrandimento sulle aziende anziché sul governo.

Mi spiego meglio. La Casa Bianca non vuole raggiungere il primato globale nella manifattura di microchip “solo” (si fa per dire) perché questo primato genera occupazione e PIL; ma innanzitutto perché il primato nella manifattura di una tecnologia critica come il microchip è garanzia di potenza politica. Gli Stati Uniti non possono rimanere la prima superpotenza al mondo se non domineranno le tecnologie del XXI secolo. Non lo dico io, lo dice Biden:

“Ci saranno più cambiamenti tecnologici nei prossimi dieci anni – o anche nei prossimi cinque – che negli ultimi cinquanta. E io voglio che l’America guidi quel cambiamento”. Più chiaro di così. E infatti la sua amministrazione non sta investendo nell’efficientamento energetico degli edifici – quelli siamo noi -, ma nelle tecnologie critiche per il futuro: semiconduttori, con il CHIPS Act; energia pulita, con l’Inflation Reduction Act. Transizione digitale e transizione ecologica, direbbero a Bruxelles (ma tra il dire e il fare…).

Sia chiaro: non sto dicendo che l’approccio di Biden sia di per sé vincente e giusto. Come ogni cosa, è discutibile e ha i suoi punti critici. Ma per poter essere giudicato, deve prima essere compreso.

Non c’entra la soddisfazione dei consumatori americani verso i loro smartphone e tablet farciti di microchip, come scrive Mingardi; c’entra il futuro dell’America come superpotenza tecnologica, e dunque politica. Sono due cose diverse: a un consumatore non interessa la provenienza del chip, basta che sia efficiente e il più economico possibile; alla Casa Bianca interessa che il chip sia efficiente, naturalmente, e che sia made in Usa.

Per gli Stati Uniti, le problematiche non stanno nelle scelte dei consumatori, che pure fanno parte della partita, ma su tre temi che emergono sempre di più nel 2024:

1) I semiconduttori per così dire “strategici” (per esempio quelli degli armamenti) non sono sempre i più “avanzati” quindi se tu investi solo su una parte “avanzata” che costa molto ti trovi magari a finanziare effettivamente della componentistica per smartphone che è meno strategica di una cosa meno “avanzata”.

2) Per tornare una potenza manifatturiera, bisogna avere una forza lavoro adatta. Ed è ancora da dimostrare che quella degli USA lo sia.

3) Biden ha fatto queste scommesse politico-manifatturiere spesso in Stati che inclinano verso i Repubblicani, anche per ragioni politiche, visto che Biden è un vero politico, e anche se è poco in forma è tutt’altro che scemo. Solo che i sondaggi attualmente dicono che questo sforzo titanico non ha spostato molto. Quindi chissà.

Insomma – caro direttore – il liberismo può attendere, anche negli Stati Uniti. Viva il capitalismo politico, come scrive Alessandro Aresu.

Cordiali saluti,

Francis Walsingham

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