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Quota 102

Migranti e pensioni, ecco chi ha ragione tra Boeri e Brambilla

Il commento di Andrea Stuppini

Il tema del contributo degli immigrati all’economia è quantomai attuale e suscita grande interesse nell’opinione pubblica anche se la polemica politica tende troppo spesso a semplificare una materia assai complessa. L’aspetto della relazione tra il fenomeno migratorio ed i servizi di welfare va approfondito perché ci accompagnerà a lungo nel futuro: ogni contributo di analisi è pertanto benvenuto. La recente nota di Itinerari previdenziali firmata da Alberto Brambilla e Natale Forlani e opportunamente ripresa da Start Magazine, si presta a molteplici considerazioni.

Cerco di spiegare perché non la condivido.

Che gli immigrati (ovviamente parliamo dei regolari) in Italia rappresentino un vantaggio per l’Inps (come avviene in tutti i paesi sviluppati) deriva dal semplice assunto che la loro età media (33 anni) è inferiore di oltre 10 anni rispetto a quella degli italiani (45 anni): anziché focalizzarsi su aspetti parziali analizzando singoli dati di flusso, conviene partire dall’aspetto di fondo.

Su 16 milioni di pensionati in Italia, oggi gli stranieri (mettendo nel conto anche i comunitari) sono circa 130.000 (80.000 pensioni contributive e 50.000 pensioni assistenziali), meno dell’1% del totale, per un importo di circa 800 milioni di euro (2016). Sul lato delle entrate i 2,4 milioni di lavoratori stranieri versano all’Inps circa 10 miliardi di euro l’anno. In un sistema pensionistico a ripartizione basato sul presupposto per cui i lavoratori attuali pagano gli assegni ai pensionati attuali, la bassa età media degli immigrati porta un beneficio immediato.

Va inoltre considerato il fatto che la percentuale di lavoratori stranieri a cui si applica il più vantaggioso metodo di calcolo retributivo è molto esigua, poiché solo lo 0,3% poteva vantare almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995. Il 12,1% è soggetto al metodo di calcolo misto e ben l’87,6% vedrà la propria pensione calcolata con il metodo contributivo.
Per avere un termine di paragone, l’85% delle pensioni oggi in pagamento per i nativi è basato sul sistema retributivo.

Nel suo XVI rapporto annuale, l’Inps ha stimato che, in totale assenza di flussi migratorii, da qui al 2040 il paese risparmierebbe 35 miliardi di prestazioni sociali destinate agli immigrati, ma percepirebbe 73 miliardi in meno di entrate contributive, con una perdita netta complessiva stimabile in 38 miliardi di euro: circa 1,7 miliardi per ciascuno dei ventidue anni considerati.

Sono almeno tre i motivi per i quali il rapporto tra immigrati e previdenza à peculiare. Il primo è il requisito minimo di venti anni di contributi per accedere a qualunque trattamento previdenziale che si applica a coloro che rientrano nel sistema retributivo o misto (sono oltre il 12%): gli immigrati che sono arrivati in Italia in età matura e soprattutto quelli che rientrano nel paese di origine per ragioni lavorative o familiari possono fallire questo traguardo. Il secondo motivo è che per ottenere la pensione occorre fare domanda all’Inps: può sembrare banale, ma negli anni scorsi migliaia di immigrati sono rientrati nel paese di origine senza presentare la domanda di pensionamento, pur avendone i requisiti. Il terzo motivo sono i requisiti più restrittivi per le pensioni di reversibilità stabiliti dalla legge 189/2002 (cosiddetta Bossi-Fini): se il decesso del coniuge si è verificato prima dell’età pensionabile, al superstite rimpatriato non spetta la pensione di reversibilità.

In base a questi elementi il presidente dell’Inps Tito Boeri ha calcolato che negli ultimi anni gli immigrati abbiano lasciato nelle casse dell’Istituto circa 3 miliardi di euro di contributi versati, per prestazioni cui avrebbero avuto diritto se fossero rimasti in Italia.

Sul versante opposto, quello di indebite appropriazioni ai danni del sistema previdenziale, vengono spesso citati i casi di truffa legati agli assegni sociali che spettano ai percettori di redditi bassi (inferiori a 5.824,91 euro annui o a 11.649,82 euro se il soggetto è coniugato nel 2017), che hanno compiuto almeno 65 anni e 7 mesi e vivono in Italia da almeno 10 anni. l’importo dell’assegno sociale viene ritoccato ogni anno (per il 2017 è di 448,07 euro per 13 mensilità9 e viene revocato se il titolare soggiorna all’estero per più di trenta giorni.

L’intensificarsi dei controlli attraverso le banche dati elettroniche ha permesso di rilevare alcuni casi di truffe perpetrate da cittadini stranieri che sono entrati in Italia attraverso i ricongiungimenti familiari, ma che poi sono risultati risiedere all’estero (i primi paesi citati sono nell’ordine Albania, Marocco e Argentina). Per quanto grave, il fenomeno riguarda in tutto circa 500 casi, per un totale di 10 milioni di euro, e talvolta ha per protagonisti i familiari di ex emigrati italiani.

L’analisi del contributo degli immigrati al sistema previdenziale e il loro basso impatto sulla spesa pensionistica permette dunque di affermare che il rapporto è particolarmente vantaggioso per il sistema previdenziale (come in tutti i paesi sviluppati), almeno finché la distribuzione per età della popolazione straniera rimarrà simile a quella attuale.
Si può o meno apprezzare il contributo che il prof. Boeri ha espresso su questa materia negli ultimi anni, ma non si può negare come egli abbia messo in luce dati con elementi di trasparenza nel rapporto tra immigrati e previdenza, che si spera non vengano meno in futuro.

Nella seconda parte del contributo “Itinerari previdenziali” contesta le analisi condotte negli ultimi anni da istituti di ricerca (come IDOS di Roma e Fondazione Moressa di Mestre) volti a dimostrare che gli immigrati versano maggiori contributi previdenziali ed imposte di quanto ricevono in servizi di welfare.
In particolare si critica la metodologia di calcolo che, per giungere ad un saldo positivo, ingloba i contributi previdenziali nel rapporto tra costi e benefici della spesa pubblica italiana. Si contesta inoltre la metodologia di calcolo adottata sulla spesa pubblica per gli immigrati, sostenendo che una semplice moltiplicazione del costo pro-capite porta il totale della spesa pubblica per immigrati ad almeno 23 miliardi (una cifra quasi doppia rispetto a quella delle ricerche citate).

C’è del vero nel ragionamento sulla presenza dei contributi previdenziali, ma va spiegato che essi vengono utilizzati solamente nel metodo di calcolo a spesa standard riferita ad un singolo anno fiscale. In un sistema previdenziale a ripartizione è ciò che sta avvenendo.

Ma se si parla di spesa pro-capite, recenti ricerche (come quella sulla spesa sanitaria in Emilia-Romagna pubblicata sul “Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione 2018” della Fondazione Moressa, ed Il Mulino, Bologna) hanno dimostrato che la spesa pro-capite degli immigrati è sensibilmente inferiore ad esempio in campo sanitario per la minore durata delle degenze ospedaliere dovuta all’età o per il consumo di farmaci “unbranded” a causa dei bassi redditi.
Sarebbe dunque un errore stimare che la spesa pro-capite degli stranieri sia pari a quella degli italiani, perché non è così.

Ma il punto non è solo questo.

Il problema è che il metodo del costo standard può solo in parte spiegare l’evoluzione della spesa per l’immigrazione: l’utenza immigrata (che era quasi inesistente fino a venti anni fa) può essere considerata una spesa aggiuntiva che usufruisce di servizi nei quali l’utilizzo del personale, dei beni strumentali, delle strutture, ecc., era preesistente e di cui si è progressivamente esteso l’utilizzo. Questi sevizi hanno un costo marginale decrescente. Secondo il metodo del costo standard, nei settori in cui il costo del personale à preponderante (quali la scuola o la giustizia), la crescita percentuale progressiva dell’utenza immigrata determina una lievitazione dei costi ad essi relativa, che è più teorica che reale.

Questo ragionamento vale per quella produzione di servizi che implica l’utilizzo di personale pubblico, di beni e servizi, di spese in conto capitale, ecc. Non si applica naturalmente ai trasferimenti economici in quanto tali, per cui è facile individuare i beneficiari immigrati.

La spesa pubblica italiana ammontava a oltre 740 miliardi di euro nel 2007 ed ha raggiunto gli 830 miliardi di euro nel 2016, ma se si esclude l’inflazione l’aumento reale si può calcolare in circa 12 miliardi medi l’anno. La domanda che dobbiamo porci è quanto di questo aumento si può imputare all’utenza immigrata.

Considerando che la presenza media degli immigrati nel decennio considerato era del 7% (dal 5,8% di residenti nel 2007 all’8,3% nel 2016), ne consegue che l’aumento marginale dei costi loro riferiti non supera gli 840 milioni annui (cioè il 7% di 12 miliardi). Sommando 3,5 miliardi di trasferimenti monetari (3,2 più 0,2 per la casa e 0,1 per le quote monetarie dei servizi sociali) agli 840 milioni di incremento marginale annuo, si ottiene un totale di 4,34 miliardi di euro pari allo 0,5% della spesa pubblica italiana.
Percentualizzando invece i valori della spesa standard (come fece ad esempio Bankitalia nel 2009, con un diverso metodo ma con risultati analoghi) otterremmo che gli immigrati assicurano circa il 2,3% delle entrate pubbliche ed esprimono circa il 2,1% delle uscite (anno fiscale 2016).

Giova infine ricordare che l’impatto fiscale dell’immigrazione è stato oggetto di numerosi studi all’estero come quelli di Smith ed Edmonston nel 1997 negli Usa (analisi campione su California e New Jersey), di Gott e Johnston nel 2002 nel Regno Unito, di Callejo e Fuentes nel 2010 in Spagna. Studi più recenti si sono svolti in Scandinavia, Argentina, Nuova Zelanda ecc. Quasi ovunque si è riscontrato un apporto positivo degli immigrati alla fiscalità generale. Esiste anche un sito dedicato: “immigrationimpact.com”.
Resta il rammarico che in Italia un argomento così delicato sia affrontato da singoli studiosi o enti di ricerca anziché a strutture pubbliche come avviene nei paesi anglosassoni.

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