Perché accettare i 27,4 miliardi del Sure e rifiutarne i 32 del Mes? Tutto ciò non ha senso, almeno in apparenza. Nei mesi scorsi si è molto parlato di un eventuale danno reputazionale. Chi accetta soldi per far fronte ai costi diretti ed indiretti della pandemia, confessa di essere sull’orlo del fallimento. Meglio, quindi soprassedere, e, se del caso, stringere la cinta. Fosse così, l’eventuale danno reputazionale sarebbe, improbabilmente, a senso unico.
Finora i Paesi che hanno chiesto i finanziamenti Sure sono una quindicina. Concessi, dopo attenta verifica, da parte della Commissione, dell’effettivo stato di necessità. All’Italia è andato il finanziamento maggiore: circa il 33 per cento degli 81,4 miliardi finora stanziati. Contro i 100 inizialmente previsti. Il resto è ancora da assegnare. Il criterio seguito nel predisporre la graduatoria, da parte della Commissione, è stato duplice: il tasso di disoccupazione e il valore del Pil. Circostanza che spiega l’en plein italiano. Il suo tasso medio triennale di disoccupazione è stato pari all’11,6 per cento. Al terzo posto dopo Grecia (21,3 per cento) e Spagna (19,6 per cento). Cui sono andati, rispettivamente, 2,7 e 21,3 miliardi.
La base giuridica del Sure, come specificato dal suo Regolamento, era fornita dall’articolo 122 del TFUE e dagli articoli 220 e 282 del Regolamento UE, Euratom 2018/1046. Con il primo articolo si autorizzava la Commissione europea ad intervenire a favore di tutti i Paesi membri dell’Ue in difficoltà. Con i restanti due si definivano le clausole che dovevano accompagnare l’erogazione del prestito ed il suo rimborso. In base a queste disposizioni, i prestiti potevano essere concessi, come in effetti è avvenuto, a tutti i Paesi membri dell’Ue. Ne hanno quindi beneficiato anche la Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Croazia, la Polonia e la Romania, che non fanno parte dell’Eurozona.
Diversa la base giuridica del Mes, che fa riferimento all’articolo 136, terzo comma del TFUE. Che fu varato proprio per stabilire una relazione giuridica tra la scelta intergovernativa del relativo Trattato e l’ordinamento europeo. Articolo reso noto al grande pubblico a seguito della polemica politica. In esso si faceva, infatti, riferimento a quella “rigorosa condizionalità” divenuta cavallo di battaglia dei sovranisti e populisti per motivare il “gran rifiuto”. Nemmeno fossimo ai tempi di Celestino V.
Era giustificato? Ne dubitiamo. Una interpretazione sistematica delle regole previste dal Trattato sembrerebbe escluderlo. Troppo diverse sono le condizioni che regolano l’attività ordinaria del Mes, nelle due ipotesi: precautionary conditioned credit line (PCCL) e quella “a condizionalità rafforzata” (enhanced conditions credit line, ECCL). Del resto la stessa Commissione, con uno specifico documento (Annex 2 – Assessment of public debt sustainability and COVID-related financing needs of euro area Member States; in preparation of the assessment pursuant to Article 6 of Regulation (EU) No 472/2013 and Article 13(1) ESM Treaty) aveva certificato la sostenibilità del debito di tutti i Paesi membri dell’Eurozona. Risolvendo il problema alla radice.
Fuori dalle polemiche, alcune contraddizioni rimangono. La principale riguarda il perimetro di attività del Mes. Che può riguardare esclusivamente “gli Stati membri la cui moneta è l’euro” ed i cui prestiti possono essere concessi solo se “indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro” (Art. 136 (3) del TFUE). Quindi alla Bulgaria o alla Repubblica Ceca, come si è visto in precedenza, tanto per fare un esempio, possono essere concessi finanziamenti per far fronte alla disoccupazione, ma non per combattere la pandemia, rafforzando il sistema sanitario. Un evidente controsenso.
Ma perché insistere sul Mes e non su una soluzione tipo Sure? Anche in questo caso le ragioni, se così si può dire, sono diverse. Il Mes si finanzia, com’é noto, sulla base dei conferimenti avuti. Nonostante ciò i suoi fondi, dopo gli interventi negli anni precedenti, sono ancora notevoli. E rischiano di rimanere inutilizzati. Per questo sarebbe opportuna una sua riconversione. Proposta che ha incontrato soprattutto il favore dei Paesi “frugali” in considerazione del fatto che il rischio è, comunque, limitato al solo importo conferito. Per l’Italia circa 14 miliardi.
Nonostante ciò la domanda di finanziamento langue. Una delle ragioni è data dal punto 13 dei “considerando” dello stesso Trattato. Ove si ricorda che “i capi di Stato o di governo hanno concordato che i prestiti del Mes fruiranno dello status di creditore privilegiato in modo analogo a quelli del Fmi, pur accettando che lo status di creditore privilegiato del Fmi prevalga su quello del Mes”. Impegno che, non essendo ribadito nei successivi articoli, ha una valenza giuridica diversa. Alla quale si può facilmente derogare, con una successiva determinazione da parte dei capi di Stato.
Questa rettifica sarebbe quanto mai opportuna per evitare una segmentazione del debito di quei Paesi che decidessero di accettare i servigi del Mes. Eviterebbe il rischio di un possibile declassamento della restante parte del debito. Ed, al tempo stesso, una convenienza maggiore ad accedere a questa nuova forma di finanziamento. Nel valutarne il costo relativo, infatti, si deve tener conto che se fosse mantenuto il “privilegio”, quei tassi d’interesse, seppure prossimi allo zero, non sarebbero poi così convenienti. Ma la semplice contropartita di un “privilegio” che i singoli Stati potrebbero, comunque, conferire a titoli di nuova emissione con risultati analoghi, se non migliori. E senza correre il rischio di una stigma.