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Manovra

La manovra del governo è davvero espansiva?

Le cosiddette “misure espansive” della manovra del governo Meloni sono superiori alle “coperture”? No. Ecco numeri e analisi secondo l'economista Gustavo Piga. Articolo tratto dal suo blog.

Nel 2023, a essere ottimisti, l’Italia crescerà dello 0,6%, per ammissione dello stesso ministro dell’Economia e delle Finanze. Una percentuale che, per un governo appena entrato in carica e sostenuto da ampi consensi, tradisce una mancanza di ambizione rimarchevole. Purtroppo la realtà è che il Fondo monetario internazionale prevede per il nostro Paese, piuttosto, una moderata recessione, l’ennesima, e questo sempre che si sappiano fare quegli investimenti pubblici con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, o Pnrr, che il precedente esecutivo ha rinviato per incapacità organizzativa: altrimenti la recessione potrebbe assumere contorni di drammatica gravità economica e sociale.

In questo contesto, analisti non keynesiani hanno confermato che la manovra per il 2023 si conferma essere “molto” restrittiva. Hanno, al contempo, lodato questo atteggiamento prudenziale del governo Meloni. Mentre è rinfrancante finalmente prendere atto che si è trovato un accordo tra economisti sul fatto che una manovra è da definirsi restrittiva per l’economia nel momento in cui taglia il rapporto deficit/Pil alzando le tasse e riducendo le spese della Pubblica amministrazione (cosa che era già avvenuta in maniera quantitativamente clamorosa con il governo Draghi, ma che non era stata fatta risaltare), non si può che rimanere basiti di fronte alla contemporanea tesi degli stessi colleghi che ciò sia utile e benefico per il nostro Paese.

A meno infatti di non volerci privare di qualsiasi strumento di politica economica fiscale, è noto come in recessione le politiche fiscali debbano essere espansive, aumentando il rapporto deficit/Pil, non solo per non aggravare la recessione ma anche per non permettere al rapporto debito/Pil, di cui si teme l’insostenibilità, di tornare a crescere proprio grazie all’effetto nefasto che manovre austere hanno sul denominatore del rapporto, il Pil. Qualsiasi politico che abbia a cuore la permanenza dell’Italia nell’Unione europea, e dunque la stabilità politica dell’Europa stessa, dovrebbe sapere che acuire tensioni economiche e sociali in momenti di difficoltà è l’anticamera di una disaffezione identitaria e prodromo di sciagure referendarie sovraniste: Brexit docet.

Che la manovra per il 2023 sia restrittiva apparentemente stride con quanto il governo Meloni e parte della carta stampata affermano, ovvero che le cosiddette “misure espansive” sono superiori alle “coperture”: 35 miliardi le prime (tra cui dominano per 20 miliardi gli aiuti sul caro energia e per 5 miliardi la riduzione del cuneo fiscale) e 14 le seconde (di cui si sa poco, se non che 700 milioni provengono dalla riduzione delle spese per il reddito di cittadinanza), cosicché si teorizza che le maggiori spese pubbliche e minori entrate sono di circa 20 miliardi superiori alle minori spese e maggiori entrate.

La risposta a questa apparente contraddizione è semplice: se il governo Meloni non avesse fatto nulla rispetto a quanto ereditato dal suo predecessore, il deficit su Pil sarebbe sceso dal 5,6% del 2022 al 3,4% del 2023, di fatto confermando una manovra restrittiva di circa 40 miliardi, data la stasi del Pil 2023. Il fatto che il governo Meloni sia invece intervenuto, portando la riduzione del deficit/Pil dal 5,6% al 4,5%, sta solo a significare che questo ha deciso di effettuare una minore austerità. Ma pur sempre di austerità si tratta, enorme, di 1,1% di Pil, nel bel mezzo di una recessione, che finirà per aggravare quest’ultima.

Il lettore vorrà sapere ovviamente quale sia la natura di questa restrizione di bilancio del governo Meloni, dove trovarla nelle pieghe dei documenti di bilancio. È piuttosto difficile farlo non solo perché quasi nessuno ne parla, ma effettivamente perché questa è quasi invisibile. Trattasi delle significative riduzioni di spesa reale (6,5% in meno rispettivamente in ognuna delle macro voci) per stipendi nella Pubblica amministrazione e per l’acquisto di beni e servizi come apparecchiature per la Tac, ambulanze, necessità delle forze dell’ordine, scuole e università. Invisibile all’occhio del lettore perché nel bilancio appare come tali spese siano, in euro, quasi costanti. Ma in un anno d’inflazione accentuata, attorno al 5-6%, ciò significa un forte taglio reale del potere d’acquisto degli stipendi pubblici e della capacità di acquisto di beni e servizi divenuti più cari. Tutto ciò comporta una riduzione dei consumi da parte dei dipendenti pubblici e di acquisti pubblici dalle imprese che non potranno che avere riflessi significativi su produzione e occupazione.

Due fattori sorprendono di questa scelta austera del nuovo governo. Il primo è più politico e riguarda la decisione di, così facendo, colpire una specifica categoria, come quella dei dipendenti pubblici. Il secondo è più economico e riguarda la decisione di non avere dunque interesse per una riforma seria e strutturale di spending review basata non sui tagli a casaccio (confermati dalla volontà del ministro dell’Economia di apportare tagli lineari per circa 800 milioni alle spese delle amministrazioni centrali senza chiedersi se si taglia a chi spende bene o a chi spende male), ma sulla riqualificazione della spesa, un tema di riforma che il disastro organizzativo sui ritardi del Pnrr del precedente governo ha messo bene in luce come strategico, che spesso necessita aumenti di spesa per attrarre le migliori competenze all’interno della Pubblica amministrazione e per acquistare beni e infrastrutture di qualità e non sotto costo, evitando sprechi.

Per quanto riguarda le cause, non sfugge a chi scrive che “così (da sempre) vuole l’Europa”, che nella sua miopia mette a rischio il progetto comune di Unione. Ma così non volevano gli elettori italiani, che sperano tuttora in un governo coraggioso, europeista, a favore di occupazione, crescita e stabilità per il tramite di politiche economiche che si differenzino in maniera strutturale da quelle del passato, abbandonando austerità e tagli a casaccio per favorire investimenti pubblici anche in deficit e riforme della qualità della spesa. Ne godrebbe non solo il nostro Paese ma il continente tutto, unificandosi attorno a crescita, progresso, sviluppo.

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