La politica “zero COVID” adottata dalle autorità cinesi per contenere i contagi di coronavirus attraverso lockdown molto rigidi – è quella applicata oggi alla città di Shanghai, soprattutto – potrebbe mettere in crisi il sistema del trasporto delle merci tra Asia, Europa e Stati Uniti e alimentare la crescita dell’inflazione, aggravando un quadro generale già complesso da tempo, dall’inizio della pandemia, e peggiorato dalla guerra in Ucraina.
Shanghai, importante polo portuale ed economico della Cina, è sottoposta a pesanti restrizioni da circa un mese. Limitazioni simili sono previste per altre città piccole e grandi, e anche la capitale Pechino – dove quasi tutti i suoi abitanti sono stati sottoposti a test diagnostici – potrebbe finire in lockdown.
PROBLEMI ALLE FILIERE PER TUTTO IL 2022
Come spiega Bloomberg, se anche la Cina dovesse riuscire a gestire la diffusione del coronavirus, la congestione nei suoi porti potrebbe ripercuotersi sulle filiere globali fino alla fine dell’anno. Jacques Vandermeire, amministratore delegato del porto di Anversa, il secondo più trafficato d’Europa per volume di container, ha detto infatti di aspettarsi “uno scompiglio più grande dell’anno scorso” che avrà “un grosso impatto negativo per l’intero 2022”.
La Cina rappresenta all’incirca il 12 per cento del commercio globale. Le sue restrizioni anti-COVID hanno interrotto le attività nelle fabbriche e nei magazzini, rallentato le consegne di merci via camion e aggravato gli ingorghi nei terminal per i container.
Julie Gerdeman, amministratrice delegata di Everstream Analytics, società di analisi del rischio delle filiere, ha spiegato che i tempi di attesa per l’arrivo delle merci via nave alla costa ovest degli Stati Uniti “aumenteranno significativamente”.
UNA NUOVA GLOBALIZZAZIONE?
Secondo gli esperti, è possibile che questi nuovi intoppi alla logistica contribuiranno al processo di ridefinizione del commercio internazionale,
Si stima che, nel breve termine, gli accumuli di container nei porti causeranno intoppi al commercio globale, che solo l’anno scorso si era ripreso dalla contrazione del 2020. Nel più lungo termine, invece, questi problemi logistici contribuiranno alla ridefinizione stessa del commercio internazionale: invece che spezzettarsi in tante parti del mondo, le filiere si faranno più corte, cioè più “concentrate” in una manciata di paesi, e la globalizzazione si trasformerà in regionalizzazione. In alcuni paesi come il Messico, anello cruciale della catena industriale nordamericana, questo processo di accorciamento delle supply chain per ridurre la dipendenza dall’Asia è già in corso. Lorenzo Berho, amministratore delegato di Vesta, società che realizza infrastrutture, ha detto a Bloomberg che “la globalizzazione come la conosciamo potrebbe essere giunta alla sua fine”. La segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, sta promuovendo l’idea di friend-shoring: ovvero l’installazione di catene di approvvigionamento in paesi alleati e affidabili, con l’obiettivo accrescere la resilienza della produzione industriale.
L’IMPATTO SU TESLA, CONTINENTAL E NON SOLO
La società di veicoli elettrici Tesla ha fatto sapere che il lockdown di Shanghai si è tradotto nella perdita di un mese di lavoro. Bed Bath & Beyond, grande catena statunitense di negozi al dettaglio in tutto il Nordamerica, ha detto che un livello “anormalmente elevato” del suo inventario risulta in transito, non disponibile o trattenuto nei porti. Alcoa, uno dei maggiori produttori di alluminio al mondo, si è lamentato dei problemi di trasporto per l’aumento delle proprie scorte. Continental, azienda tedesca che realizza pneumatici, ha abbassato le sue previsioni di crescita della produzione globale di automobili e veicoli commerciali leggeri: oggi la stima è del 4-6 per cento, rispetto alla precedente del 6-9 per cento.
TEMPI DI CONSEGNA QUASI RECORD
Wang Xin, presidente della Shenzhen Cross-Border E-Commerce Association, un’organizzazione che rappresenta circa tremila aziende di export, ha fatto sapere che se anche il lockdown di Shenzhen (importante hub tecnologico cinese) è durato solo una settimana, “molti venditori stanno risentendo di un ritardo un mese” sulle consegne di prodotti.
Secondo le stime di Flexport, attualmente un carico di merci che lascia una fabbrica in Asia impiega in media 111 giorni per raggiungere un magazzino negli Stati Uniti: è un valore molto vicino a quello massimo (113 giorni) registrato lo scorso gennaio, e più che doppio rispetto al tempo necessario per compiere lo stesso tragitto nel 2019. Per arrivare in Europa, un carico asiatico impiega ancora di più: 118 giorni, quasi un record.
COME VANNO LE MATERIE PRIME
Lunedì i prezzi del petrolio sono calati del 4 per cento per via dei timori sulla domanda globale: i contratti del Brent (il riferimento europeo) sono sui 102 dollari al barile, mentre quelli del west Texas Intermediate (il benchmark americano) a 98,5 dollari. La causa sta, oltre ai lockdown in Cina, primo importatore di greggio al mondo, al possibile aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti.
Oltre a quelli del petrolio, scendono anche i prezzi dei metalli industriali come il rame. C’entrano, anche in questo caso, i dubbi sulla capacità di assorbimento della Cina: è il paese che consuma più metalli, ma le restrizioni anti-COVID penalizzano l’attività manifatturiera. Lunedì alla London Metal Exchange il rame è sceso sotto i 10mila dollari a tonnellata.
Il calo del prezzo riguarda anche altri metalli come lo stagno, l’alluminio, lo zinco, il nichel, il piombo e il palladio.
GLI INTOPPI A SHANGHAI
Secondo i dati di Bloomberg, fino al 20 aprile scorso a Shanghai (dove si trova il più grande porto per i container al mondo: 43,3 milioni di TEU) e nella vicina Ningbo c’erano 230 di navi portacontainer ferme, il 35 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Al porto di Shanghai i container importati aspettano in media 12,1 giorni prima di venire caricati sui camion ed essere consegnati nell’entroterra, secondo i dati di Project44, relativi al 18 aprile; il 28 marzo il tempo di attesa era ben inferiore, di 4,6 giorni. Non solo il trasporto via camion, ma anche quello aereo è ingolfato, perché buona parte del traffico diretto a Shanghai viene spostato altrove.
Per alleviare gli intoppi, le autorità cinesi hanno incoraggiato alcune aziende (in particolare che realizzano veicoli e semiconduttori) a fare ricorso a sistemi closed-loop: significa che gli operai finiscono col vivere nelle fabbriche in cui lavorano. La riattivazione della produzione dopo un periodo di chiusura, però, non è un processo immediato. La fabbrica di Tesla a Shanghai, ad esempio, ha ripreso le attività dopo tre settimane di chiusura, ma non è chiaro per quanto tempo potrà operare visto che la quantità di componentistica a sua disposizione è limitata.
E PECHINO?
Phil Levy, economista di Flexport, ha detto al New York Times che Pechino, pur essendo una città importante, “non è al centro della produzione in fabbrica o delle operazioni della catena di approvvigionamento”. Per questo motivo un lockdown avrà probabilmente un impatto più modesto sulla logistica rispetto a quello di Shanghai, ma dipenderà dalla sua durata. Il momento dell’anno in cui ci troviamo, poi – ha spiegato Levy -, è abbastanza fiacco dal punto di vista delle consegne di merci, “ma c’è molto da recuperare” e la fase di produzione inizierà presto.
Elisabeth Waelbroeck-Rocha, economista di S&P Global Market Intelligence, pensa invece che, oltre a ingolfare le supply chain e ad alimentare l’inflazione, i focolai di coronavirus e i lockdown hanno penalizzato la crescita economica cinese nei mesi di marzo e aprile; difficilmente, dunque, il paese raggiungerà l’obiettivo di crescita del PIL del 5,5 per cento nel 2022.
LE DIFFICOLTÀ IN EUROPA
Le difficoltà logistiche sono serie, se non peggiori, anche in Europa. Molti dei porti principali del continente – come Rotterdam, Amburgo e Anversa – stanno lavorando a piena capacità e fanno difficoltà ad accogliere nuovi container perché non dispongono di spazio sufficiente per stoccarli.
La presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha ricondotto il problema alla profonda integrazione dell’Europa nelle catene del valore globali, anche maggiore di quella statunitense. Il 46 per cento delle aziende tedesche, per esempio, acquista buona parte dei loro componenti dalla Cina; quasi la metà di queste, tuttavia, ha intenzione di ridurre tale dipendenza.
La rilocalizzazione delle filiere era un processo già in atto; l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe indurre le imprese a prestare più attenzione all’affidabilità di un paese che alla convenienza di prezzo.
L’IMPATTO IN ITALIA
Commentando l’impatto del lockdown sul trasporto di merci a Shanghai, Giampaolo Botta, direttore generale di Spediporto, l’associazione degli spedizionieri di Genova, ha detto al Sole 24 Ore che “se la capacità operativa dei terminal viene dichiarata come garantita, ma al rallentatore, visto le oltre 700 navi mercantili in rada, nei magazzini interni manca il personale a causa della politica di tolleranza zero nei confronti dei movimenti dei cittadini in costanza di lockdown. Peggiore la situazione nel settore del trasporto: manca la manodopera e la poca merce prodotta nelle fabbriche non riesce a raggiungere i porti”.
“Insomma”, prosegue, “la supply chain cinese è all’angolo; ma il colpo del ko è diretto ai mercati di tutto il mondo. L’onda lunga di questa situazione colpirà l’Europa e l’Italia nelle prossime settimane, quando alcune produzioni dovranno interrompersi, molti cantieri fermare i lavori e tanti consumatori rinunciare a beni di cui non si troverà più traccia nei supermercati. Inevitabile un rialzo dei noli, in parte calmierato, forse, dalla contrazione dei consumi in Europa, più conseguenza della guerra in Ucraina che del Covid, e una caccia ai contenitori vuoti, che torneranno a concentrarsi in Cina per soddisfare la domanda interna”.