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Tunisia

Le vere sfide economiche del governo

Come si muoverà il governo in politica economica. Fatti, dichiarazioni e commenti nell'analisi di Gianfranco Polillo

 

Nella “non” conferenza stampa di Mario Draghi, dai tratti così insoliti e sincopati, due cose ci hanno colpito, in modo particolare, quando il discorso è caduto sulla situazione economica del Paese. La prima riguarda la fase che sta traversando l’economia italiana. Nonostante gli ottimi risultati, nessun trionfalismo. Il rimbalzo che si è verificato – questa la tesi del presidente del Consiglio – è anche conseguenza della forte caduta del Pil, intervenuta nei trimestri precedenti.

Occorrerà pertanto aspettare, prima di esprimere un giudizio ragionato. Se la spinta continuerà anche nel primo semestre del prossimo anno, avremo la prova provata del profondo cambiamento intervenuto in una sorta di “stagnazione secolare”. Quella in cui l’economia italiana era sprofondata, perdendo colpi, anno dopo anno. Una perdita di potenza destinata a far crescere continuamente le distanze con gli altri Paesi del G7 e del G20. Se invece sarà semplicemente colmato il vuoto indotto dai lunghi mesi di pandemia, allora da quelle secche non saremo riusciti a tirarci fuori.

Per il momento, tuttavia, godiamoci almeno il brivido dell’incertezza, facendo leva sull’ottimismo della volontà. Che, in economia, significa cambiamento delle aspettative e crescita della voglia di fare. La miscela che ha prodotto risultati che sono andati oltre le più rosee aspettative. Basti riprendere le previsioni d’inizio anno del Ministero dell’economia. Così dicendo, Mario Draghi ha prosciugato lo stagno in cui nuotano i pesci del tanto peggio, tanto meglio. Rispondendo con garbo alla prefiche del Conte bis. Quelle donne vestite di nero che nell’antichità, a pagamento, piangevano il defunto cantandone le lodi.

Il secondo elemento su cui riflettere è l’accento fatto alla politica industriale. Il Governo – ha precisato – deve avere una sua visione. Che significa? Non certo un piano di politica industriale, con tutte le sue rigidità. Ma qualcosa di più leggero, anche se, per questo, non meno importante. Si tratta infatti di interagire rapidamente con un ambiente esterno destinato a mutare rapidamente sotto la spinta di fattori diversi.

Ci sono, innanzitutto, i cambiamenti dovuti a due anni trascorsi a combattere con il Covid. Essi hanno determinato un diverso modo di vivere e di consumare. Basti pensare alla diffusione dello smart working. Si tornerà pure in ufficio e nella scuola in presenza. Ma la comodità di poter lavorare in remoto non verrà meno. In prospettiva sarà sempre più conseguenza di una libera scelta, piuttosto che di una costrizione. Ma il dato, in qualche modo, è tratto. Lo dimostra l’improvvisa strozzatura nell’offerta di computer e più in generale nella produzione di microchip di fronte ad una domanda in pieno boom.

L’industria dell’intrattenimento, a sua volta, è stata quella che è stata sottoposta alle più forti sollecitazione. La chiusura delle sale cinematografiche ha spinto produttori, registri ed attori ad utilizzare format diversi, come ad esempio le serie televisive. Che oggi spopolano in tutte le reti e nella maggior parte dei canali TV. Il cinema tradizionale, quello delle grandi emozioni, riprenderà? E chi può dirlo. A volte basta un niente per determinare un giro di boa, che cambia completamente lo scenario.

C’è poi il grande tema del green deal, al quale, com’è noto, è legato il Pnrr. Il solo rispetto degli impegni europei determina, negli equilibri macroeconomici italiani, un piccolo terremoto. Forte crescita degli investimenti, secondo un trend che si è già palesato negli ultimi tre trimestri. Mantenere i ritmi imposti dall’Europa, non sarà facile. Troppi ancora i colli di bottiglia burocratici, il peso eccessivo di una componente amministrativa che molto spesso uccide sul nascere la voglia di realizzare. Piccole e grandi emergenze da individuare e sulle quali è necessario intervenire con tempestività.

Si potrà fare solo mettendo a confronto il peso di esigenze diverse. Da un lato la regola aurea del vincolo giuridico, posto a garanzia dell’ordinamento; dall’altro la tempistica di un cronoprogramma costruito per rispondere alle diverse scadenze: sia di natura tecnica, si pensi solo alla forte crescita dei prezzi delle materie prime e di alcune commodities. Sia di natura giuridica, nel rapporto con la Commissione europea. In questo complicato schema del dare dell’avere, solo una corretta visione delle relative priorità, può evitare errori che potrebbero comportare perdite notevoli.

Se dalle piccole si passa alle grandi cose, lo schema si complica ulteriormente. Che fare dell’automotive? Una percentuale pari al 6/7 per cento degli investimenti complessivi, in Italia. I propositi della Commissione europea sono noti: entro il 2035 dovrà cessare la produzione di nuovi veicoli a benzina e diesel. Da allora solo elettrico. Anche se, al momento, l’elettrico puro, per i suoi limiti intrinseci (bassa autonomia), è solo un settore di nicchia. Roberto Cingolani, Ministro della transizione ecologica, è da tempo oggetto di attacchi da parte del Fatto quotidiano solo per aver indicato quanto complicato e difficile sarà quel passaggio. Forse più stretto della cruna di un ago. Reazione conseguente, inutile dirlo, di Giuseppe Conte.

Ma parlare di industria non può far dimenticare il resto. Soprattutto quel mondo del lavoro, che rimane il protagonista assoluto della modernità. Ci vorranno capacità, skill, culture e formazioni diverse nel mondo di domani. Un ambiente in cui l’automazione sarà ancora più spinta e le macchine in grado di soppiantare la fatica dell’uomo. Fatica fisica, non certo quella mentale, che invece è destinata a crescere. Ed ecco allora la necessità di una formazione diversa. Calibrata sulla necessità di assimilare meglio il linguaggio delle varie tecnologie per dominarle e piegarle. Tutte cose che richiedono una presenza dello Stato in grado di organizzare i necessari percorsi di apprendimento in un mercato del lavoro profondamente riformato.

Utilizzando le categorie di una volta, si potrebbe dire che capitale e lavoro saranno, con ogni probabilità, meno antagonisti. Ma questa ipotetica convergenza va costruita. Occorrerà porre dei vincoli agli appetiti degli animal spirits, evitando tuttavia di soffocarne le libertà fondamentali. Compresa quella di fallire, quando le circostante di mercato lo impongono. L’esercizio dell’industria, del commercio o di qualsiasi attività produttiva non è filantropia. È impiego del proprio capitale, valutazione del rischio, e quindi ottenimento di un rendimento. Alterare, in modo scriteriato questo rapporto, significa solo risolvere illusoriamente il problema alla radice: spingendo alla fuga i possibili investitori.

Su questi condensati di argomenti, Mario Draghi non ha mostrato alcun tentennamento. La sua linea è chiara. Al punto da poterla comunicare senza alcun tentennamento. Vi saranno i soliti mal di pancia di questa o di quella componente del suo schieramento politico di supporto? Certo che ci saranno. Ma con quali conseguenze? Le abbiamo già viste in altre occasioni. Meglio allora: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Dante Inferno III, 51)

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