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La lezione che arriva dai dati sulla produzione industriale fiacca in Europa. Il commento di Polillo

L'andamento della produzione industriale nei Paesi Ue, il dibattito sul Patto di Stabilità, lo stato di salute della Germania e la proposta di Bagnai (Lega). Il commento di Gianfranco Polillo

Per l’industria italiana il 2019 sarà ricordato come un annus horribilis. Sempre che il 2020, con il suo preannuncio di pestilenze – il coronavirus – che mietono vittime e spingono verso forme sempre più spinte di autarchia e di isolamento, non risulti ancora peggiore. Il monito del Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, al Assiom Forex di qualche giorno fa. Del resto come ricordava Ferruccio de Bortoli, nel suo editoriale di domenica scorsa, dalle pagine del Corriere della Sera, l’Italia è partita con il piede sbagliato. Con quel meno 0,2 per cento del Pil che gli pesa addosso, come eredità negativa dell’anno appena trascorso. E la cui coda finale trova, nella certificazione dell’Istat, l’aspetto più preoccupante.

Con i dati di dicembre risulta che, nel 2019 la produzione industriale è tornata a scendere dopo cinque anni. Con un calo dell’1,3% in media rispetto al 2018, quando si era registrata, invece, una crescita dello 0,6%. Si tratta della prima diminuzione dal 2014 e di quella più ampia dal 2013 in poi. Rispetto al 2019 (dicembre su dicembre) la flessione non solo è stata del 4,3%, tenendo conto del numero dei giorni lavorati. Ma senza soluzione di continuità per la durata degli ultimi tre trimestri. Spia rossa, dato il contesto, di una più che probabile recessione futura.

La diversità 2020-2019 ha offerto al presidente della commissione Finanze del Senato, Alberto Bagnai, la possibilità di un rapido commento. Non tanto riferito ai dati Istat (che comunque suonano a conferma della sua tesi), ma alla dipendenza del Bel Paese dall’austera ed un po’ minacciosa Germania. “Col secondo Governo Conte – ha detto – la subalternità all’Europa si è fatta soffocante: lo dimostra l’atteggiamento ambiguo e supino nella vicenda della riforma del Mes, ma lo dicono anche i numeri. Dall’estate 2018 alla primavera 2019, cioè durante il primo governo Conte, la produzione industriale italiana è cresciuta in media di un punto percentuale in più su base trimestrale rispetto a quella tedesca. Il Conte bis ha accorciato le distanze con la Germania, ma verso il basso: solo 0.4% di crescita in più rispetto a una Germania ormai in caduta libera sotto il peso della propria follia ideologica che definirei ‘austeritaria’”.

Che in Germania non sia tutto rose e fiori è dimostrato non solo dal preannuncio di una cattiva congiuntura industriale, ma dalla crisi politica che si è aperta all’interno della Cdu, con le dimissioni di Annegret Kramp-Karrenbauer, scelta da Angela Merkel come candidata alla sua successione. Rimarrà ministro della difesa, ma nulla di più. Tra questi due elementi esiste più di una relazione. Le politiche di austerity, finora imposte con una protervia degna di miglior causa, non hanno fatto male solo ad alcuni Paesi europei: dalla Grecia all’Italia. Hanno creato anche all’interno della stessa Germania focolai di resistenza che, con il passare del tempo, si sono trasformati in guerra aperta contro il vecchio establishment: dando luogo a forti pulsioni sovraniste. Da qui la perdita di consenso dei due principali partiti che compongono la coalizione governativa. Ma anche quel tardivo ripensamento che, proprio in questi giorni, ha portato la stessa Commissione europea a lanciare la proposta di una riscrittura delle regole del Patto di stabilità. Seppure al termine di una lunga consultazione, che vedrà impegnati tutti i Paesi membri e la pubblica opinione.

Insomma: sembra che in Europa si stia aprendo una fase nuova. Grandi ripensamenti, ma anche incertezze per il futuro. Rispetto al quale, al di là delle fin troppo facili profezie, restano le grandi incognite del “nuovo”. Ecco allora che l’intervento del Presidente della Commissione Finanze del Senato, Alberto Bagnai (Lega), può inserirsi pienamente in questo dibattito. Anzi dare il là – questo almeno è il nostro auspicio – a un lavoro di scavo più intenso, che porti alla luce, senza inutili forzature ideologiche, le contraddizioni intrinseche di regole che, alla fine, hanno fatto il loro tempo. Ma che nessuno è ancora in grado di dire come devono cambiare.

Cosa per la verità non del tutto esatta. C’è, infatti, un pugno di inguaribili ortodossi, decisi a resistere sulla riva del “prima di tutto il rigore”, che può continuare a produrre piccoli disastri. Non tanto perché portatori di un sapere economico considerato inossidabile. Keynes dovrebbe suggerire loro qualche risposta. Ma per il peso che, da tempo detengono, all’interno di un establishment che non ha certo dimostrato, in tutti questi anni, amor di patria. Ma si è limitato soprattutto a coltivare il proprio orticello. Sul quale non esiterebbe a piantare, se le cose non dovessero andare nel verso desiderato, le insegne del Gattopardo.

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