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Europa Grandi Imprese

Perché l’Ue sbaglia ad azzoppare i contratti di sviluppo per le grandi imprese

Fatti, numeri e scenari sui contratti di programma e di sviluppo che l’Ue vuole rimodulare. L’analisi del prof. Pirro.

Mentre Polonia e Ungheria (con la Slovenia) provano a fermare bilancio comunitario e Recovery fund, chiedendo che l’ottenimento delle loro risorse sia sganciato nei loro confini nazionali dal rispetto delle norme di uno Stato di diritto – come invece hanno giustamente stabilito gli altri Paesi della UE – si discute molto fra gli addetti ai lavori se le grandi aziende europee potranno godere anche nel nuovo ciclo di finanziamenti 2021-2027 delle agevolazioni di cui hanno sinora fruito e che, in molti Paesi come il nostro, hanno consentito ad esse di promuovere negli ultimi vent’anni nuovi massicci investimenti soprattutto nelle regioni meno sviluppate. In proposito, la preoccupazione è palpabile fra i top manager dei grandi gruppi perché un preciso orientamento della Commissione e di una parte del Parlamento europeo vorrebbe invece riservare solo alle Pmi le agevolazioni cui sinora erano ammesse anche le aziende maggiori.

Intanto, è opportuno precisare che per la UE, ai fini del godimento degli incentivi, sono considerate grandi imprese quelle da 250 ula-unità lavorative annue in su, o con un totale di bilancio di 43 milioni di euro. Ora è sicuramente opportuno voler rafforzare le Pmi che in quasi tutti gli Stati dell’Unione rappresentano di gran lunga la maggioranza dei loro universi societari, ma è altrettanto vero che i big player, realizzando investimenti ben superiori per dimensioni e caratteristiche a quelli delle piccole e medie aziende, sono in realtà i soggetti imprenditoriali grazie ai quali l’Europa comunitaria può competere con successo con Stati Uniti e Cina; pertanto, dovrebbe essere interesse comune delle economie dell’Unione Europea rafforzare ulteriormente i loro competitor maggiori, favorendone anche aggregazioni e fusioni. La nascita da gennaio 2021 di Stellantis, che scaturirà dall’unione dei gruppi automobilistici PSA e FCA, rappresenta un esempio eclatante nella direzione appena auspicata.

Le grandi imprese in Italia sono circa 3.400 e, pur rappresentando solo lo 0,1% delle sue aziende, occupano il 20,7% dei loro addetti, generano il 31,7% del valore aggiunto e realizzano il 41,3% degli investimenti, trainando nei comparti strategici – siderurgia, automotive, aerospazio, chimica, energia, agroalimentare, Ict, navalmeccanica, tac – ramificate supply chain. (fonte: Annuario Statistico Italiano 2019-Istat).

Questa funzione trainante è ancora più avvertita nell’Italia meridionale, ove si localizzano – solo per citare alcune megafabbriche – lo stabilimento siderurgico di Taranto (8.200 addetti diretti), la FCA a S.Nicola di Melfi (7.247 occupati), la Sevel in Val di Sangro (6.500), tutte supportate da filiere di attività indotte; impianti di componentistica con elevati tassi di occupazione facenti capo a TD-Bosch, Marelli, Magna, Skf, Bridgestone, Denso Manufacturing, Adler, in diverse regioni; le maggiori raffinerie nazionali a Priolo, Augusta, Milazzo e Sarroch; vasti stabilimenti aeronautici della Leonardo e della Avio nel Napoletano, a Foggia, Grottaglie e Brindisi; potenti centrali elettriche di Enel, Edison, Sorgenia, Enipower, Erg in varie province; impianti petrolchimici della Versalis a Brindisi e Priolo; costruzioni navalmeccaniche di Fincantieri a Castellammare di Stabia e Palermo con l’imponente Arsenale della Marina Militare a Taranto; la fabbrica a Catania di assoluto rilievo nazionale nell’Ict della STMicroelectronics con 4.200 persone; avanzati impianti farmaceutici fra gli altri di player come Novartis, Pfizer, Sanofi, Merck, Dompé; stabilimenti cartotecnici dell’Istituto Poligrafico dello Stato a Foggia, del Gruppo Seda nel Napoletano e della Fater a Pescara; grandi fabbriche di materiale e segnalamento ferroviario a Napoli, Caserta e Reggio Calabria; i maggiori pozzi petroliferi on shore d’Europa in Val d’Agri e nella valle del Sauro in Basilicata ove estraggono Eni, Shell, Total, Mitsui; cementerie di Buzzi Unicem, Italcementi, Colacem; vetrerie di multinazionali come Pilkington e Owens Illinois; decine di siti di alcune delle maggiori industrie agroalimentari italiane ed estere come Ferrero, Barilla, Granarolo, Parmalat, Coca Cola, Birra Peroni, Unilever, Heineken, Casillo, De Cecco, Divella, Princes Mitsubishi, Valfrutta, Orogel, Giv, La Doria.

Queste industrie hanno aumentato l’occupazione, o almeno la stanno conservando anche in tempi di pandemia, alimentano solide le filiere collegate, attraggono nuovi investimenti anche dall’estero, sviluppano competenze coerenti con l’offerta di lavoro locale. Secondo dati del Mise, nel periodo 2013-2018 il 68% delle agevolazioni complessive è stato riservato alle Pmi e il 32% alle grandi imprese. Inoltre, dei 3,8 miliardi di incentivi accordati alle Pmi, 2,3 miliardi lo sono stati da Amministrazioni centrali e 1,5 miliardi da quelle regionali. Nello stesso periodo anche le grandi imprese hanno goduto di 1,6 miliardi di agevolazioni da Amministrazioni centrali e 260 milioni da quelle regionali.

La Regione Puglia con il suo sistema di incentivazione per le grandi imprese incentrato sui contratti di programma, fra il 2014 e il 2020 ne ha finanziati con 458 milioni ben 62 che hanno avviato investimenti per 1,2 miliardi, di cui 491 milioni destinati ad attività di ricerca e sviluppo, con un’occupazione complessiva di 15.614 unità, di cui 1.322 nuovi addetti. Anche Invitalia nel corso degli anni ha ammesso ai contratti di sviluppo – in qualche caso cofinanziati dalle Regioni come la Campania per quelli localizzati nel suo territorio – diverse decine di grandi aziende industriali la maggioranza delle quali insediate nel Sud.

Allora anche nel nuovo ciclo di investimenti con fondi comunitari per il periodo 2021-2027 bisognerebbe continuare a consentire – nel Mezzogiorno e nelle altre aree sottosviluppate della UE – alle grandi imprese di beneficiare di incentivi per acquisire attivi materiali, o almeno per promuovere ricerca e innovazione, efficienza energetica e generazione di energie rinnovabili.

Il nostro Paese e le sue aree meridionali devono difendere e valorizzare il patrimonio tecnologico e professionale delle grandi aziende, favorendone sempre di più in esclusive logiche di mercato sinergie con le Pmi.

Federico Pirro – Docente di Storia dell’Industria, Università di Bari

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