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Digital Tax

A che punto è la Digital Tax?

L’articolo di Enrico Zanetti, tributarista, già sottosegretario all’Economia e alle Finanze Mentre gli Usa approntano riforme fiscali tarate apposta per costruire un ambiente fiscale favorevole alle grandi imprese multinazionali, in Italia si discute di ampliare il regime fiscale delle cosiddette “partite Iva minime” e si promette battaglia alla “evasione dei grandi”. C’è davvero qualcosa che…

Mentre gli Usa approntano riforme fiscali tarate apposta per costruire un ambiente fiscale favorevole alle grandi imprese multinazionali, in Italia si discute di ampliare il regime fiscale delle cosiddette “partite Iva minime” e si promette battaglia alla “evasione dei grandi”.

C’è davvero qualcosa che non va in tutto questo ed il rischio, per il nostro Paese più ancora che per altri Paesi Ue comunque a rischio insieme a noi, è veramente quello di bissare, in modo ancora più drammatico, quello che è già accaduto una generazione fa.

L’incapacità di costruire un sistema fiscale competitivo 25 anni fa, di fronte all’affermarsi dell’era della globalizzazione dell’economia, ha infatti prodotto un significativo depauperamento del tessuto produttivo italiano per effetto del fenomeno della delocalizzazione (ben diverso da quello, positivo e da sostenere, della internazionalizzazione).

Oggi, di fronte all’affermarsi dell’era della digitalizzazione e della “smaterializzazione” di una fetta sempre più ampia dell’economia e della catena del valore, ripetere l’errore significherebbe andare incontro alla “desertificazione digitale e immateriale” a favore di altri Paesi.

Gli Stati Uniti, con la riforma Trump in vigore da quest’anno, hanno fatto la loro scelta: poco spazio, sulle questioni “vere”, alla concertazione multilaterale in sede Ocse e via libera a un sistema fiscale costruito apposta per favorire in modo particolare le grandi imprese multinazionali che traggono i propri profitti dall’impiego economico di beni immateriali nell’economia digitale e non solo.

A fronte di questo, l’Ue ha, tardivamente ma pur sempre finalmente, avviato l’iter per introdurre una digital tax europea (Piano B) fino a quando non si creeranno le condizioni politiche per tornare a quella concertazione fiscale internazionale che consenta di risolvere la questione in modo più civile e organico, mediante l’introduzione della nozione di “stabile organizzazione digitale” basata sul concetto di “presenza digitale significativa”.
E l’Italia come intende muoversi in questo quadro? Mistero.

Pur tra imprecisioni, conoscenza approssimativa del quadro complessivo e, in taluni casi, autentiche bestialità tecniche, il dibattito sul tema della tassazione dell’economia digitale è stato molto intenso durante gli anni della passata legislatura (2013-2017).

Da un lato, questo dibattito ha prodotto anche nel nostro Paese, l’introduzione, tardiva ma opportuna, di un regime (il “patent box”) che, esattamente come la più recente riforma Trump negli Usa, mira ad agevolare il mantenimento degli asset immateriali ad alto valore aggiunto in capo a società residenti, ma che, a differenza della recente riforma Usa, rispetta i canoni e i limiti concordato in sede multilaterale Ocse, risultando così assai più macchinoso, meno appetibile e quindi meno “aggressivo” nella concorrenza tra Stati.

Dall’altro, questo dibattito ha generato vari tentativi di digital tax “ante Ue” che però, proprio per il totale appiattimento, anche oltre il dovuto e l’opportuno, di taluni ambienti politici e tecnici italiani alla “compliance Ue”, non hanno prodotto nulla di concreto, al netto di una classica misura da “ultima legge di bilancio ante elezioni” con entrata in vigore demandata a un decreto attuativo che, post elezioni, è scomparso come da prassi da tutti i radar.

Oggi che il pedissequo rispetto per il multilateralismo e la “compliance Ue è senza dubbio meno presente di prima nel sentiment politico della maggioranza e del governo, sarebbe lecito attendersi un fiorire di progetti sul fronte “digital tax”, a prescindere dai tempi e dalle procedure europee in corso, nonché di regimi fiscali volti a rendere particolarmente appetibile l’Italia quale Paese di residenza delle grandi società multinazionali, al pari di quanto accaduto negli Usa.

Sarebbe il “lato positivo” di quella maggiore autonomia politica che, sull’altro piatto della bilancia, porta inevitabilmente (e sta purtroppo portando) tensioni finanziarie e conseguenti maggiori costi sul debito sovrano.

Invece il nulla: dei “grandi” si parla soltanto per assicurare che su di essi si concentrerà la “lotta all’evasione”, senza rendersi conto che questo approccio, senza una digital tax, lascia indenni le grandi multinazionali della digital economy con sede negli Usa e suscita invece legittime preoccupazioni nei medi e grandi gruppi multinazionali dell’economia tradizionale, con sede in Italia, che probabilmente guarderanno presto anche loro agli USA o ad altri Paesi che ragionano in termini di competitività fiscale, piuttosto che di minacce fiscali.

È auspicabile che questi temi tornino quanto prima nell’agenda del dibattito politico nazionale sul fisco.

(Articolo pubblicato su Eutekne.info)

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