Gli ultimi dati statistici sulla dinamica della pandemia, in Italia, devono essere analizzati con cura. Le fonti ufficiali – ministero della Salute – indicano, infatti, una progressiva crescita di quel contagio, che nei mesi estivi si era progressivamente ridotto. Dalla fine di agosto ad oggi essi sono aumentati del 409 per cento, quando nei mesi estivi (luglio-agosto) il loro incremento era stato appena del 24 per cento. Non è l’unico dato ad impensierire. Il rapporto tra il numero dei ricoverati, in terapia intensiva, ed il totale dei positivi aveva raggiunto il minimo il 27 agosto, attestandosi su una percentuale pari allo 0,31 per cento. Gli ultimi rilievi indicano un valore quasi doppio (0,54 per cento), superiore alla media di più lungo periodo che, dai primi di giugno era stata pari allo 0,5 per cento. Se volessimo applicare le regole statistiche dell’analisi tecnica di borsa, si potrebbe dire che quel rapporto tenderà, con ogni probabilità, ad aumentare ulteriormente.
Altri dati accrescono le preoccupazioni. Le relative elaborazioni sono state effettuate dalla Fondazione Gimbe, ma le conclusioni sono ampiamente condivise. A differenza dei mesi passati il virus mostra più virulenza al sud, che non al nord. Ad un tasso di crescita medio, sul piano nazionale, del 4 per cento, in Basilicata siamo al 19 per cento circa, al 17 per cento in Campania, al 15 per cento in Sardegna, al 13 in Sicilia ed al 10 nel Lazio. Il territorio del Nord che sta peggio di tutti è la Provincia autonoma di Bolzano, con un incremento inferiore al 6 per cento. Per la Lombardia, in passato il grande malato d’Italia, siamo a tassi di crescita inferiori al 3 per cento. In molte zone dei nuovi centri di diffusione epidemica, le strutture ospedaliere, specie per quanto riguarda le terapie intensive, sono in affanno. Al punto da far temere il peggio.
Se il trend dovesse continuare, avremmo una situazione ben più drammatica di quella vissuta nei primi mesi dell’anno. Allora la pandemia poteva essere fronteggiata da strutture sanitarie ben più forti di quelle che sono a disposizione dei nuovi territori della maggiore diffusione epidemica. La facile previsione è pertanto quella di un costo sociale ben più drammatico di quello al quale siamo stati costretti ad assistere, nel più generale sbigottimento. Resta quindi lo sconcerto. In questi mesi si è fatto poco o nulla per adeguare le strutture sanitarie di quei territori al maggior rischio sistemico, in previsione di un possibile peggioramento. Vanno benissimo le buone intenzioni, quale quelle manifestate dal ministro Roberto Speranza, per il prossimo decennio, grazie all’utilizzo delle risorse del Recovery Fund, secondo quanto da lui stesso anticipato in Parlamento. Ma a quella data il Paese ci deve arrivare: possibilmente vivo o, se si vuole, con un numero di morti il più contenuto possibile.
All’origine di questi ritardi sono stati fattori diversi: le contraddizioni di un governo più abituato a promettere che non a prevedere e, soprattutto, realizzare; una certa sottovalutazione del fenomeno dopo il dramma della scorsa primavera; la mancanza di risorse finanziarie. Ma soprattutto lo stucchevole conflitto tra i sostenitori del Mes e quelli del Recovery Fund. Tormentone che si trascina giorno dopo giorno, nonostante le crescenti prese di posizioni di autorevoli personaggi: da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, a Carlo Bonomi, presidente di Confindustria. Che non tutto sia completamente chiaro, nelle astruse procedure di Bruxelles, è fin troppo noto. Dubbi riguardano il Mes, ma non sono minori quelli relativi allo stesso Recovery Fund.
Se si dovesse scommettere sulla maggiore o minore “condizionalità”, implicitamente recata dai due opposti strumenti, la scelta sarebbe tutt’altro che facile. Basti guardare alle 45 pagine del documento della Commissione (Staff working document guidance to member States recovery and resilience plan) per capire quanto sarà difficile non solo realizzare i Piani, ma ottenere poi i promessi finanziamenti. Scelte in larga misura condizionate (37 per cento green e 20 per cento digitalizzazioni), obblighi preventivi quali quelli relativi al rispetto delle raccomandazioni formulate negli anni 2019 e 2020, dall’Italia disattese per circa il 70 per cento; una definizione progettuale alla quale l’Italia non è abituata. Non vi potranno essere varianti in corso d’opera o modifica delle date di scadenza, indicate preventivamente. E poi il corredo di dati riguardati sia lo specifico, che l’impatto del progetto sul quadro di carattere più generale. Se si considerano i limiti storici dell’Amministrazione pubblica italiana nel valutare gli effetti delle disposizioni legislative in fase di attuazione, si può avere contezza del triplo salto mortale che è richiesto per superare i controlli, in corso d’opera, da parte della Commissione europea. Senza considerare il quadro politico più generale. Con i Paesi del nord pronti a fare le pulci su ogni possibile smagliatura.
Ma al di là di tutto ciò c’è un dato che taglia la testa al toro. Nella migliore delle ipotesi quei soldi saranno disponibili solo nella seconda metà del prossimo anno. La sanità italiana è in grado di reggere fino a quella data? La risposta la deve fornire uno dei tanti Comitati d’esperti, che ogni sera ci terrorizzano dagli schermi della televisione italiana. Ma deve essere una risposta meditata: vanno bene le mascherine, il distanziamento sociale, lavarsi le mani più volte al giorno, le forme di coprifuoco. Ma, alla fine della fiera, saranno le strutture sanitarie a fare la differenza. Se esse sono sufficienti, potremmo ancora sfogliare la margherita della “condizionalità”. Ma se non fosse così, tutta la responsabilità ricadrebbe sul presidente del Consiglio. Cui spetta l’onere di dirigere “la politica generale del governo”, essendone il “responsabile”. Articolo 95 comma uno della Costituzione della Repubblica italiana.