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Pil Italia

Consigli di politica economica utili per evitare di far sprofondare l’Italia. Il commento di Polillo

Il commento di Gianfranco Polillo

Un’antica tradizione del passato voleva che, con l’anno nuovo, si gettassero le cose che non servivano più. Nei quartieri popolari delle grandi città, circolare in prossimità della mezzanotte dell’ultimo dell’anno, era rischioso. Dalle finestre dei palazzi pioveva ogni genere di cose: vecchi mobili sbilenchi, vestiti ormai dismessi, pentole di cucina, insieme a mortaretti, castagnole e stelle filanti. Dovremmo, per una volta, rispettare quell’antica tradizione e mandare al macero la politica economica fin qui seguita: con i suoi fallimenti, che hanno colpito il popolo. Senza, per altro, risolvere alcun problema. L’anno che verrà ci vedrà ancora alle prese con un tasso di crescita inconsistente, un debito in progressivo aumento, un carico fiscale sempre più insopportabile ed un tasso di disoccupazione che stringe il cuore.

Com’è noto, da gennaio 2015 nell’Eurozona, grazie alla lungimiranza ed alla tenacia di Mario Draghi, è entrato in funzione il quantitative easing. Un avvenimento che ha cambiato radicalmente l’equazione che descrive la dinamica del debito pubblico. In precedenza, la letteratura economica era concorde. L’eccesso di debito condizionava il ritmo di crescita dell’economia, restringendola all’interno di un imbuto senza prospettiva. Varie le motivazioni. In quelle condizioni, il costo del finanziamento dell’intera economia, e non solo, dello Stato aumentava. Sottraeva quindi risorse sia agli investimenti che al welfare. Il clima complessivo diventava più incerto accrescendo tutti i possibili rischi. Ognuno temeva che avrebbe dovuto pagare di più in futuro, a causa del progressivo aumento del deficit pubblico, ed era quindi portato a risparmiare piuttosto che a consumare. Così il ciclo economico di avvitava su sé stesso.

Ma se i tassi d’interesse scendono per grazia ricevuta. La politica della Banca centrale e la liquidità che diventa abbondante: ecco il miracolo. Il vincolo di prima si trasforma in un‘opportunità. Basta, infatti, avere un tasso di sviluppo nominale leggermente superiore, ed il rapporto debito/Pil invece di aumentare tende a scendere. E’ quanto si è verificato per il complesso dei Paesi dell’Eurozona. Il rapporto debito/Pil che, nel 2015, era pari all’83,5 per cento, nel 2018 si è invece ridotto al 77,5, con un calo di ben 6 punti di Pil. Conseguenza, soprattutto, della forte riduzione della spesa per interessi: il 25 per cento nei quattro anni considerati e della maggior crescita del Pil nominale. Che è stata in media del 3 per cento all’anno. Il ruolo dell’avanzo primario – in media un aumento dello 0,7 per cento – è stato invece più limitato.

In Italia, invece, i risparmi, nella spesa per interessi, sono stati minori: appena pari al 9,7 per cento in media. L’aumento degli spread ha compensato i vantaggi del quantitative easing. Colpa soprattutto di una comunicazione sbagliata da parte dei policy makers. Basta ricordare le chiassate sul balcone di Palazzo Chigi o le proposte più volte avanzate di procedere alla stampa di mini bot. Interpretati dal mercato, come l’anticamera della possibile fuoriuscita dall’euro, essendo la proposta incompatibile con lo statuto della Bce. Poi ci sono state le continue richieste di flessibilità: circa 30 miliardi, secondo i rilievi più volte formulati da Pierre Moscovici. Il tutto in assenza di una precisa strategia tesa ad accrescere il tasso di sviluppo. E quindi ritenute solo un espediente per aumentare i livelli di spesa corrente.

Indubbiamente l’aspetto più inquietante, che spiega l’invarianza del rapporto debito/Pil, rimasto sostanzialmente stazionario (appena una riduzione dello 0,37 per cento in quattro anni), è stato dato dalla mancata crescita. Il Pil in termini nominali è aumentato ad un ritmo medio dell’1,7 per cento, contro il 3 per cento dell’Eurozona. Ed a poco è servito avere un saldo primario (1,5 per cento del Pil) doppio dell’Eurozona (0,7 per cento in media). A dimostrazione che questo dato, isolato da un contesto più generale, non ha la forza per determinare un’inversione di tendenza.

Rispetto al resto dell’Eurozona, l’Italia ha presentato un doppio svantaggio. Un tasso di crescita reale più contenuto, di circa il 36 per cento in meno, nella media degli anni considerati. Ed un’inflazione più moderata, per una percentuale più o meno identica. Parametri che dovrebbero far riflettere in quest’analisi retrospettiva, per ricavarne lezioni per il futuro. L’Italia ha utilizzato risorse per decine di miliardi di euro in operazioni di semplice cosmesi: dagli 80 euro di Matteo Renzi, alla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia su Iva e accise, per non parlare del salario di cittadinanza e “quota 100” per le pensioni.

Si è guardato all’albero, ma non alla foresta. Prese in sé, ciascuna di queste scelte avevano un loro perché. Ma sommate le une alle altre si sono trasformate in un grande vuoto a perdere. Hanno forse contribuito a risolvere qualche situazione contingente, ma non sono state in grado di intervenire sui nodi di fondo dell’economia italiana. Che per ridare benessere alle nuove e vecchie generazioni ha soprattutto bisogno soprattutto di crescere. Eppure se si fanno bene i conti, si può vedere facilmente come il montante complessivo di quelle risorse, sminuzzate in tanti micro interventi, erano un capitale sufficiente per finanziare una grande riforma fiscale, capace di dare ossigeno al grande malato d’Europa. E non solo.

Un proponimento per il futuro. Sempre che cambi l’attuale situazione di frammentazione politica. Che vi sia una forza capace di adunare, attorno a sé, il consenso popolare indispensabile per qualsiasi operazione che abbia un minimo d’ambizione. E che sappia spiegare la razionalità del suo agire politico. Sacrificando, nel breve, gli interessi più immediati, ma in cambio di una prospettiva in cui il benessere, nel frattempo creato, possa, in seguito, essere redistribuito. Quel grande patto che, in epoche lontane, ha consentito al Paese di uscire da una sindrome di rassegnazione e conquistare quelle posizioni, che, con l’inizio del terzo millennio, l’Italia ha progressivamente perduto.

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