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Comfort zone, evoluzione e miglioramento

Il corsivo di Battista Falconi

 

È un’espressione divenuta di moda e in quanto tale detestabile ma, bisogna ammettere, altrettanto efficace, che rende molto bene l’idea: “comfort zone”, zona di conforto. Cioè la modalità nella quale riscontriamo che il dispendio energetico, psico-fisico è proporzionato al ritorno che ne ricaviamo in termini di benefici; oppure in cui, più genericamente, la spesa, l’uscita, gli elementi negativi sono compensati e superati dal guadagno, dal ricavo, dagli elementi positivi.

È spesso questa considerazione a guidarci nei nostri comportamenti, a far sì che, nel turbinio che si catalizza nel nostro cervello in ciascun istante, si faccia una scelta vantaggiosa. E poiché gli input che riceviamo sono davvero numerosissimi, ci vuole un calcolatore straordinario come il nostro cervello per tenerne conto: per questa ragione alcune reazioni e decisioni avvengono a livelli più profondi della coscienza, così da evitare di affaticarci e di perdere tempo nella valutazione degli elementi in campo. Il nostro organismo si è dotato di una serie di stimoli, segnali, sintomi, campanelli d’allarme, automatismi che ci consentono di affrontare situazioni basilari senza dover “pensare”.

Se però ci stacchiamo da queste situazioni verso quelle che chiamiamo “razionali”, il principio che ci agisce, e che non consideriamo abbastanza, è quello per il quale è sempre possibile migliorare, puntare al meglio, fare la scelta migliore. La nostra vita – guardandola dallo specchietto retrovisore, perché soltanto questo ci è concesso – può apparirci come un fallimento totale ma in realtà, se andassimo a osservarla non nella sua totalità bensì in ogni tassello che la compone, ci accorgeremmo di avere fatto quasi sempre la scelta giusta: nel senso, appunto, di scelta “migliore”, migliorativa. La ragione per cui, nonostante ciò, la vita può non andare bene è – errori di valutazione a parte – che i percorsi esistenziali, sia positivi sia negativi, avvengono secondo un meccanismo complesso, figurativamente ricondotto all’“emmental”, il formaggio con i buchi: secondo tale processo, se noi tagliamo delle fettine, riscontriamo sezioni diverse ed è molto difficile che il punto pieno o vuoto all’inizio lo sia anche alla fine.

Noi ormai diamo quasi per scontata l’evoluzione come logica e senso dell’esistenza, riteniamo cioè che quanto l’essere umano e l’umanità fanno tenda a protrarre la nostra esistenza individuale e di gruppo mediante i due aspetti fondamentali della conservazione e della riproduzione: alimentarsi, difendersi, accoppiarsi. Una dinamica che senz’altro ci agisce mediante le continue pulsioni subcoscienti o inconsce a cui siamo sottoposti, dalla rabbia alla paura. Dovremmo però riconsiderare questa modalità evolutiva ponendo attenzione anche a quella migliorativa: non potendo stabilire ciò che sarà utile al fine “ultimo” dell’adattamento utile alla conservazione individuale e di specie, procediamo intanto a fare ciò che ci sembra “meglio” in ciascun istante.

Nel corso dei secoli, però, man mano che le situazioni risolvibili mediante scelte basiche sono diminuite, giacché c’è sempre meno bisogno di procacciarci cibo o difenderci da pericoli mortali, abbiamo elaborato pensieri complessi che sono andati contro la comodità della stasi, dell’equilibrio, al risparmio energetico, rendendo il “migliorativo” prevalente, fino a mitizzare l’inutile, il superfluo. Arte, letteratura, conoscenza, e ancor più pubblicità, comunicazione, spettacolo, sono per esempio campi in cui si coltiva l’obiettivo dell’inutilità. Bellezza, forma fisica, salute, longevità, immortalità, ricchezza, benessere, sviluppo, progresso, libertà, democrazia, amicizia, amore, fama, popolarità, successo, felicità… in nome di questi miti invalidanti che ormai condizionano le nostre vite ci si chiede continuamente di uscire dalla “zona di conforto” per “migliorarci”. La “Beata solitudo, sola beatitudo” diventa disciplina ascetica, passeggiare in montagna e guardare il sole che tramonta in mare sono sostituiti da trekking o alpinismo sportivo e turismo “estremo”, anziché leggere un libro lo si vuole scrivere e pubblicare, invece di mangiare o bere qualcosa di buono diventiamo chef e food blogger.

Per auto-alimentarsi, questi miti riescono persino a proporre delle formulazioni contraddittorie come “sviluppo sostenibile”, oppure “eco-compatibile”: inquina e poi compensa le tue emissioni di gas serra, costruisci un altro edificio ma rivestilo con un bosco verticale e coprilo di pannelli fotovoltaici, costruisci e utilizza un’altra automobile però con un motore elettrico o ibrido, mangia light, consuma green, alterna la vita sedentaria con sport e palestra. Siamo continuamente sottoposti a questi messaggi, degni del “double blind” di Gregory Bateson. Alcuni pensatori propongono invece la filosofia del “less is more”, della “decrescita felice”, come lo psicologo cognitivo Paolo Legrenzi, da poco uscito per Raffaello Cortina con “Quando meno diventa più. La storia culturale e le buone pratiche della sottrazione”.

C’è stato un tempo, nemmeno troppo tempo fa, in cui buona parte degli esseri umani accettava passivamente le condizioni esistenziali che le erano imposte: nascere e vivere in un luogo privo di risorse, alimentarsi scarsamente e incertamente, ammalarsi spesso e gravemente, morire giovani, subire regimi politici ed economici, matrimoni combinati, lavorare per la gran parte del tempo. Dittature, colonialismi, ideologie e religioni in questo ci aiutavano molto, bisogna dire. Davvero si stava meglio quando si stava peggio? Francamente no. Ma restare nella nostra “comfort zone” è diventato troppo difficile, migliorare ci sembra sempre possibile e facile, anche se molto spesso il saldo del tentativo è fallimentare.

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