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Unicredit-Mustier

Chi loda e chi critica la gestione Mustier in Unicredit

Mustier è reo di non aver fatto scelte azzeccate o è solo una vittima di un consiglio d’amministrazione che ha fatto pesare il proprio favore alla fusione con Montepaschi? I commenti di Messori, De Biasi, Debenedetti, Penati, Graziani, Resti e Seminerio

 

C’è chi lo accusa di non aver fatto le scelte giuste e chi invece rimprovera il consiglio d’amministrazione di aver fatto pesare il proprio favore alla fusione con Montepaschi. All’indomani dell’addio di Jean Pierre Mustier alla guida di Unicredit – passo che in concreto verrà fatto ad aprile 2021 quando pure si insedierà ufficialmente alla presidenza Pier Carlo Padoan -, a leggere i diversi commenti di quotidiani e giornali online – al di là di chi è favorevole e chi è contrario all’operato del manager francese – c’è un elemento costante: la preoccupazione per il futuro del gruppo di piazza Gae Aulenti. Da qualche parte, peraltro, si levano consigli al board perché ripensi al proprio ruolo all’interno di Unicredit e cerchi un nuovo ceo che abbia una visione strategica più collegiale e cooperante.

MESSORI: DA MUSTIER SCELTE NON AZZECCATE

Mustier è reo di non aver fatto scelte azzeccate secondo Marcello Messori, docente di European economy and European economic governance presso il Dipartimento di Economia e Finanza della Luiss, che in un’intervista su First Online ha analizzato le azioni intraprese dal manager francese nel gruppo. “Fin dalla preparazione (fine 2016) dell’aumento di capitale di Unicredit per 13 miliardi di euro e della connessa ingente dismissione di crediti problematici, risultava evidente che la strategia del gruppo bancario fosse quella di ridurre i rischi di bilancio e di aumentare la profittabilità di breve periodo mediante la compressione dei costi e il restringimento del perimetro di attività”, ha scritto l’economista Messori, secondo cui “la strategia dell’AD di Unicredit, che si è poi concretizzata nella cessione di tutte le cosiddette ‘fabbriche prodotto’ interne al gruppo e di varie altre attività cruciali anche fuori dall’Italia, ha avuto l’effetto di cancellare le maggiori fonti strutturali di redditività e di indebolire Unicredit nel mercato nazionale rispetto ai concorrenti (prima di tutto Intesa Sanpaolo, che ha effettuato scelte opposte) e di appannarne la presenza in Europa”.

Insomma, come ribadito in altre occasioni, Messori rileva che “una simile strategia sarebbe stata efficace solo nella logica di un’aggregazione con un altro grande gruppo bancario europeo che avesse un modello di attività ben definito e potesse trarre vantaggio dall’efficienza gestionale e dalla (ancora rilevante) proiezione europea di Unicredit. Tale aggregazione transfrontaliera è stata, tuttavia, resa difficile dall’incompletezza dell’Unione bancaria e da persistenti difformità di regolamentazione negli stati membri dell’euro-area. Così, a fronte degli shock pandemici e della ripresa dei consolidamenti bancari nazionali in vari paesi europei, è emersa la necessità di riesaminare la strategia di Unicredit” perché in tale logica il gruppo sarebbe stato “preda anziché predatore”.

Per l’economista della Luiss, dunque “la mancanza di un efficace business model è un aspetto fondamentale per spiegare le passate e presenti vicende di Unicredit e per prevederne l’evoluzione”.

DE BIASI: LE PERDITE DEL TITOLO SEMBRANO DAR RAGIONE A MUSTIER

Più che fare le pulci all’operato di Mustier, il giornalista esperto di economia e finanza già al Sole 24 Ore e a Mf/Milano Finanza, Edoardo De Biasi, sul Corriere Economia di lunedì scorso si è posto una domanda che in qualche modo assolve il banchiere transalpino. “L’accusa contro Mustier è chiara: ha fatto il trader più che il banchiere. Ma qui sorge spontanea un’altra domanda. Quale mandato aveva concordato con il consiglio che l’aveva nominato? Tutti sapevano che il dna di Mustier era più legato alla finanza che alla gestione quotidiana del business. Il successo dell’aumento di capitale e la cartolarizzazione ne sono stati la cartina tornasole. Anche vendere partecipazioni strategiche poteva favorire quello che è sembrato subito il suo unico obiettivo: un’aggregazione europea e in particolar modo una fusione con Société Générale”. In seguito cominciando a “temere un declassamento dell’Italia ‘junk’” ha pensato alla creazione di una subholding ma anche questa soluzione è saltata perché “alla fine il possibile alleato Commerzbank ha preferito sfilarsi dall’operazione”. Poi, con l’acquisizione di Ubi Banca da parte di Intesa Sanpaolo Unicredit è stata relegata a “un ruolo di secondo piano, almeno in Italia” e Mustier che “non ha mai mostrato simpatie” per il nostro Paese ha evitato “prede perfette” come Banco Bpm o Mps e si è arroccato sulle sue posizioni – solo rafforzamento patrimoniale – soprattutto dopo la designazione alla presidenza di Pier Carlo Padoan. “Il ceo ha giocato la sua partita e ha alzato l’asticella pensando di essere protetto dal mercato. Ma qualcuno ha preferito forzare, non capendo del tutto le conseguenze. E la caduta del titolo sembra aver dato ragione a Mustier. Non è un caso che si cominci a parlare di una possibile Opa sul titolo Unicredit”.

L’IRONIA SFERZANTE DI DI DEBENEDETTI E PENATI

Nettamente a favore di Mustier, e soprattutto contrari al possibile merger con Siena – e all’invadenza statale – sono Franco Debenedetti, economista liberista ed ex parlamentare, ed Alessandro Penati, economista pro market e presidente-fondatore della Quaestio Capital Management, che su Huffington Post hanno dato vita a un’analisi “paradossale e sarcastica”. “Nei suoi tre anni di gestione ha venduto partecipazioni e attività per 13 miliardi e bruciato un aumento di capitale da 14 al solo scopo di sostenere il titolo – scrivono con fare pungente -. Adesso osteggiava la fusione con un’altra banca in Italia che avrebbe creato un grande gruppo: avrebbe voluto invece scindere le attività estere di Unicredit per poi magari convolare a nozze con Société Générale o Commerzbank. Un’altra nostra grande impresa sarebbe finita in mani straniere, dopo che le attività in Italia erano state spolpate” sottolineano ricordando che il governo Conte 2 “ha nazionalizzato la Popolare di Bari per rinverdire i fasti della Cassa del Mezzogiorno”. Ora dunque “si profila un grande ritorno dello Stato nelle banche reso possibile dalla fusione Unicredit e Mps, invertendo la stagione delle privatizzazioni selvagge che Bce e la Commissione Europea, braccio armato del capitale internazionale, ci avevano imposto”. E poi, in cauda venenum, “per fortuna è arrivato Pier Carlo Padoan come Presidente designato: l’uomo politico di lungo corso; l’ex-ministro, anzi il ministro che aveva orchestrato il salvataggio pubblico di Mps e si era impegnato a far scendere lo Stato in minoranza nella banca senese entro il 2022; l’ex deputato che, per attuare le indicazioni del suo dante causa aveva rinunciato a difendere gli interessi di chi gli aveva dato il voto. La sola sua presenza in Consiglio ha catalizzato la sfiducia che ha indotto Mustier a dimettersi: la strada per conquistare Mps è ormai spianata”. Del resto, concludono criticamente Debenedetti e Penati, “grande merito di questo Governo è perseguire con ammirevole continuità e perseveranza l’obiettivo di sanare il vulnus delle privatizzazioni riportando tutto il possibile sotto l’influenza dello Stato”.

IL RUOLO PRESENTE E FUTURO DEL BOARD SECONDO GRAZIANI E RESTI

Quanto accaduto in questi giorni a Piazza Gae Aulenti è invece motivo di riflessione su cosa servirà prossimamente al secondo gruppo bancario italiano, secondo altri editorialisti. Partiamo con Alessandro Graziani che sul Sole 24 Ore ha scritto un pezzo che già dal titolo fornisce le coordinate della sua opinione: “Fine della ‘one man bank’, serve un direttore d’orchestra”. “La più preziosa buonuscita che il board di Unicredit ha concesso al ceo uscente Jean Pierre Mustier è senza dubbio la gestione della comunicazione al mercato della sua uscita. Lo storytelling che circola tra gli investitori è quello della star dei mercati cacciata dalla politica italiana, forse addirittura dal Governo (che senza saperlo si scopre potentissimo), allontanato perché francese e altre illazioni. Qualche giorno di tempo, poi la claque finirà”.

Dunque, a quel punto, “ci si focalizzerà sulla realtà che in parte, nell’annunciare la non ricandidatura, ha spiegato lo stesso Mustier: da mesi c’erano divergenze con il board sulla strategia e sull’implementazione del piano presentato lo scorso dicembre”. L’idillio, insomma, era finito già da un po’ ma ora il board a cosa dovrà puntare” “Più che un altro investment banker, serve un manager esperto di banca. Meglio se già collaudato nella trasformazione digitale del business” ne deduce Graziani.

Guarda ancora al consiglio d’amministrazione anche Andrea Resti su Affari & Finanza, l’inserto economico di Repubblica. Le dimissioni del ceo di Unicredit, ha scritto l’economista Resti esperto di banche e regolamentazione creditizia, “sono state accolte con sospetto dagli investitori internazionali: un manager ‘puro’, attento solo agli interessi dei propri azionisti, sarebbe stato messo alla porta per fare posto a progetti di integrazione dettati dalla ragion di stato; il tutto con una congiura di palazzo telecomandata da un governo che non possiede una singola azione di Unicredit e riesce a malapena a guidare sé stesso”. Si tratta di una lettura “certo molto convincente per gli osservatori stranieri” ma “c’è spazio anche per un’interpretazione diversa, ancorché non incompatibile con la precedente: il consiglio di amministrazione ha semplicemente esercitato i poteri previsti dalla legge, che saggiamente assegna a un organo collegiale il governo delle aziende”. Perciò, è il ragionamento, il board “ha chiesto indicazioni e le ha vagliate, magari sbagliando, assumendosi infine le proprie responsabilità. Vista da questa angolazione la vicenda non appare negativa, dato che il sistema bancario ha per lungo tempo sofferto del problema opposto: capi-azienda carismatiche incontravano poca resistenza in seno al cda, riuscendo sistematicamente a imporre le proprie valutazioni, per quanto ottimistiche o spregiudicate”.

SEMINERIO: ORA ARRIVA LA “MINACCIA” MPS E IL COSTO PER I CONTRIBUENTI ITALIANI

Mario Seminerio, economista e blogger sul suo Phastidio.net, si mostra non tanto critico con il manager francese o con il suo allontanamento quanto per i motivi che ci sarebbero dietro il suo addio forzato.

“Mustier lascia ufficialmente perché ritiene che il suo piano industriale, Team 2023, non abbia più l’appoggio del cda. Nei fatti, il francese ha più volte detto di non essere interessato a Mps e più in generale a operazioni di acquisizione, e di puntare invece alla crescita organica, con distribuzione di dividendi e riacquisto di azioni proprie. Sincerità? Tatticismo?”, si domanda Seminerio che ricorda come ha già avuto modo di evidenziare che “per i contribuenti italiani il costo di sistemazione di Mps diverrà molto simile a quello per la sistemazione dei resti delle due banche venete collassate anni addietro, la cui polpa è stata ceduta a Intesa Sanpaolo. Chiediamoci quindi, con la solita domanda retorica, se è valsa la pena fare fuoco e fiamme in Europa per ottenere una improbabile ricapitalizzazione precauzionale di Siena, se questo è il conto finale”. Conto finale che sarà così “ma solo se saremo fortunati. Cioè se Mps verrà finalmente assegnata a un compratore, e scatterà il benedetto stop-loss per i contribuenti italiani”.

E ancora una volta l’attenzione si sposta sul cda della banca che “è effettivamente insoddisfatto della generazione di valore sin qui prodotto da Mustier. Forse si attende il Godot del matrimonio con altra banca europea, e il fuoco di sbarramento di politica e sindacato italiani ha sin qui frenato il francese, creando insoddisfazione in consiglio” oppure nel board “esiste una robusta rappresentanza di soggetti sensibili alle esigenze nazionali e la nomina a presidente di Pier Carlo Padoan, l’artefice della ricapitalizzazione precauzionale di MPS, va in questa direzione”.

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