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Chi in Germania e Olanda vuole spappolare l’Europa solidale

Le due brutte notizie giunte da Germania e Olanda commentate dall'editorialista Gianfranco Polillo

Per la verità, ieri, sono state due le brutte notizie. Da un lato la lettera inviata da Wopke Hoeskstra, il ministro delle Finanze olandese al suo Parlamento, dall’altro la sentenza della Corte costituzionale tedesca.

Episodi che contribuiscono entrambi a far vedere come il clima in Europa stia cambiando rapidamente e non certo a favore di una maggiore solidarietà tra i Paesi membri. Che l’Olanda non fosse disposta ad eccessive concessioni, lo si era visto da tempo. Totale ostilità nei confronti di ogni ipotesi di eurobond, ma ora anche pugno duro rispetto al Mes: quel controverso meccanismo che doveva assicurare finanziamenti senza condizioni per far fronte alla pandemia.

Nella missiva inviata al Parlamento, il ministro delle Finanze, membro dei cristiani democratici olandesi, nonché grande competitor di Mark Rutte, l’attuale primo ministro, per la leadership del Paese, ha posto tre condizioni: preventiva firma del memorandum d’intesa; analisi della sostenibilità del debito; prestiti più brevi rispetto a quelli normalmente concessi dal Fondo. Le risorse ottenute dai singoli Paesi – questa la logica sottesa a quest’ultimo vincolo – dovrebbero, infatti, essere utilizzate esclusivamente per le spese sanitarie, la prevenzione e le cure strettamente correlate al coronavirus. Al tempo stesso dovranno essere messi in luce tutti gli eventuali rischi collegati a un eccesso di debito pubblico; mentre i tassi d’interesse, per quanto contenuti, dovranno essere superiori al costo della provvista da parte del Fondo. Al di là di ogni altra considerazione, un anticipo di quella che sarà la discussione sul Recovery Fund: l’oggetto misterioso che si intravede sullo sfondo dei buoni propositi degli europeisti.

Diverso, anche se drammaticamente convergente, il responso della Corte costituzionale tedesca. Una tregua di tre mesi: poi nulla potrebbe essere come prima. In quest’intervallo di tempo, la Bce dovrà rispondere ai rilievi formulati, dopo di che governo, Parlamento federale e Bundebank dovranno intervenire per far cessare ogni eventuale forma di violazione. Al momento il piano di acquisti titoli (PSPP) da parte dell’Eurotower è stato confermato, non avendo la Corte riscontrata alcuna “violazione del divieto di finanziamento monetario dei bilanci degli Stati membri”. Le misure di “assistenza finanziaria adottate dall’Unione europea o dalla BCE nel contesto dell’attuale crisi del coronavirus” sono state, quindi, salvaguardate. Ma la contraddizione rimane. Ed essa riguarda una possibile violazione del “principio di proporzionalità”.

Che significa? In passato la Corte di giustizia europea aveva sentenziato che il quantitative easing era di competenza esclusiva della Bce. Se questa era, come recitano i Trattati europei, autonoma ed indipendente, allora il potere di perseguire i propri fini statutari, non poteva che essere rimesso al solo board della stessa Banca. Ineccepibile da un punto di vista giuridico. Un po’ meno da quello economico ed istituzionale. Non si dimentichi, infatti, che il tema del bilanciamento è implicito in ogni teoria basata sul principio della divisione dei poteri. Che non può significare assoluta separatezza. Se non vera e propria autarchia.

Ma, forse, ancora più rilevanti le considerazioni di politica economica che non può subire la scissione tra politica monetaria e politica fiscale. Al contrario l’esperienza storica dimostra che queste due leve devono essere tra loro coordinate, se si vuole ottenere un qualche risultato positivo. Altrimenti si rischia lo strabismo, se non una vera schizofrenia. Con una politica monetaria fortemente espansiva, ad esempio, ed una politica fiscale di segno opposto. Alla fine, nella migliore delle ipotesi, i due effetti contrastanti si elidono dando zero come risultato. Se non addirittura un gioco a somma negativa.

La Corte ha fatto proprio questo principio, rovesciando il ragionamento avanzato da Mario Draghi, nel corso del suo lungo governatorato. Quando spronava i diversi paesi a contribuire con una politica di bilancio espansiva – quelli naturalmente che potevano permetterselo – al rilancio dell’Unione europea. Prediche inutili, come quelle di Luigi Einaudi. Nel seguire quell’onda, la Corte ne ha rovesciato il paradigma: non sono i singoli Stati che devono seguire la Bce, ma è quest’ultima che deve tenere nel debito conto la politica fiscale voluta dai primi. Da questo punto di vista, quindi, la Bce era andata oltre le sue competenze (“ultra vires”) almeno per due motivi.

Il quantitative easing – questo il primo rilievo – ha finito per produrre fenomeni di monetizzazione del debito. Tesi continuamente respinta da Mario Draghi. Finché l’inflazione rimaneva al di sotto del 2 per cento – questa la replica – la Bce doveva poter ricorrere agli strumenti più opportuni. Gli acquisti di titoli – questo il secondo rilievo – non hanno rispettato le regole previste: in proporzione all’entità del capitale della banca posseduto da ciascuno Stato e fino ad una percentuale massima dei titoli emessi dal singolo Stato. L’aver superato questi vincoli – nel caso italiano gli acquisti sono stati pari, più o meno al doppio, del dovuto – ha in qualche modo legato le mani alla banca stessa. Alimentando il “rischio che l’area euro diventi dipendente dalle politiche degli Stati membri in quanto non può più semplicemente terminare e annullare il programma senza compromettere la stabilità dell’Unione monetaria”. Un monito nei confronti di chi può ritenere che l’Italia sia “to big to fail”.

Sono giusti i timori espressi? In larga misura, sì. Ma essi, a loro volta, sono figli di un retroterra ancor più contraddittorio. Non v’è dubbio che politica monetaria e politica fiscale, per quanto possibile, devono andare a braccetto. Ma l’obiettivo deve essere comune: il perseguimento dell’optimum macroeconomico, senza il quale la prevalenza dell’una o dell’altra non ha senso alcuno. O meglio: è solo riflesso di posizioni di potere o di carattere ideologico. Le stesse regole europee in qualche modo ne erano consapevoli. Basta guardare agli articoli 3 e 4 del Regolamento UE 1176/2011. Norme approvate e subito dimenticate. Per non dover sanzionare l’eccessivo peso dei surplus valutari di Paesi come la Germania, l’Olanda o il Lussemburgo.

Ben venga, quindi, un ripensamento; ma nella direzione giusta. Che non sembra essere quella tracciata dalla Corte. Che per certi versi appare velleitaria. Che può fare, infatti, la Bundesbank? Votare contro nel Consiglio direttivo? Due voti contro 19?

La verità è che la sentenza altro non è che una nuova manifestazione della spaccatura che si è aperta nell’establishment tedesco – questa sì preoccupante – tra chi vorrebbe rimettere il dentifricio nel tubetto e chi guarda ad un’Europa diversa. Un equilibrio instabile da cui potrà dipendere il destino complessivo dell’Europa.

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