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Chi dirà Ciao fra Conte e Renzi sul Recovery Plan

Che cosa sta succedendo davvero sul Recovery Plan fra Renzi e Conte. L'analisi di Gianfranco Polillo

Difficile prevedere come andrà a finire. Se ci sarà un Conte ter o se dal cilindro della crisi, alla fine, spunterà un nome diverso. Certo è che l’avvocato del popolo la sua partita l’ha giocata fino in fondo. E con un pizzico di cattiveria, appena mascherata dai continui richiami ai sacri principi. Tanto costa niente. Ma se poco poco si scava, i giochi perversi vengono alla luce, per delineare responsabilità ed inutili furbizie. Che poi siano risolutive è tutto da dimostrare. Nel cartaceo burocratico che ha sempre accompagnato ogni manovra finanziaria, la realtà del dopo è stata sempre diversa da quella descritta e certificata, in avanti. E lo stesso avverrà con il Recovery Plan. Ma allora che bisogna c’era di mettere un dito nell’occhio alla delegazione di Italia Viva, facendo finta che le richieste di cambiamento, avanzate in tutti questi giorni, altro non erano che semplici “pizzini”? Desideri da respingere al mittente.

È questo, infatti, quello che emerge dal confronto tra i diversi testi del Recovery Plan. Più volte, apparentemente, rielaborati; ma destinati a rimanere sempre gli stessi. A dimostrazione di come la trimurti governativa – Conte, Patuanelli e Gualtieri, con il supporto operoso di Amendola – abbiano operato di concerto, in un patto scellerato. Che mirava a creare una gerarchia interna al Governo, dalla quale Renzi era l’escluso. Provocando, inevitabilmente, le reazioni di quest’ultimo: non disposto a fare la figura dell’utile idiota.

Era stato un crescendo. Qualche giorno fa, in coincidenza delle feste dell’epifania, il Governo aveva emanato l’ennesimo documento. Titolo: “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza “Next Generation Italia” – Linee di indirizzo per la bozza da sottoporre al CdM.” Non era ancora il testo definitivo, ma come si leggeva nelle “avvertenze”, si trattava di “una sintesi delle attività di rielaborazione della bozza di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).” Si precisava ch’esso era “il risultato del lavoro svolto dal Governo nel confronto con le forze politiche di maggioranza, che si è intensificato nelle ultime settimane anche attraverso l’elaborazione di osservazioni e proposte di modifica alle bozze di lavoro preliminari.” Confronto dal quale Italia Viva, stando almeno alle dichiarazioni ufficiali, era stata esclusa.

Per dirimere le varie questioni Giuseppe Conte aveva convocato per l’8 gennaio un vertice di maggioranza. Situazione kafkiana. Ecco come l’Ansa riportava l’avvenimento: “il vertice di Palazzo Chigi è carico di tensioni. Per Iv ci sono Teresa Bellanova, Maria Elena Boschi, Davide Faraone: di fronte hanno il premier e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che illustrano la versione del piano aggiornata recependo le osservazioni dei partiti. Pd, M5s e Leu parlano di “passi avanti”. Per i renziani non se ne vedono. Non portano al tavolo il nuovo documento che Matteo Renzi aveva annunciato, ma le proposte e le osservazioni del “Ciao“. Faraone prende per primo la parola chiedendo il Mes e il Ponte sullo Stretto, chiede più dettagli sul piano. Gualtieri risponde con nettezza: se vi avessimo dato il piano completo prima di concordare le linee di sintesi, vi sareste lamentati. Ma i renziani rincarano (Boschi con toni più diplomatici): “Pochi soldi all’agricoltura e niente al Family act. Se togliete soldi alle nostre ministre, non volete dialogare. Provocate”.

Alla fine nulla di fatto. Continuava il gioco del cerino. Con Matteo Renzi che lamentava la mancanza di un confronto vero e Giuseppe Conte, invece, che si dimostrava accomodante, mentre i suoi lavoravano, nel disperato tentativo di costruire la stampella del gruppo dei “responsabili”. Cosa non molto gradita non solo al Colle, ma allo stesso Pd. Con Goffredo Bettini che si dava un gran da fare nel tentativo di trovare in Forza Italia o almeno in una parte, il necessario supporto che consentisse di evitare la crisi. Tutto, comunque, restava congelato. Mentre il Senato della Repubblica somigliava sempre più alla Fortezza Bastiani, del libro di Dino Buzzati. Si aspettava con ansia di conoscere il testo definitivo del Recovery Plan dove, nero su bianco, sarebbe stato possibile valutare il compromesso raggiunto tra le varie forze della maggioranza di governo.

In altri momenti la crisi si sarebbe ricomposta. Il documento finale sarebbe stato rimodulato per tener conto delle maggiori richieste in termini di cultura, infrastrutture, ambiente ed opportunità – il CIAO di Renzi – creando le premesse per una soluzione meno traumatica. Unico inconveniente: avrebbe dato al senatore di Rignano la palma della vittoria, dopo i successi già conseguiti: struttura della governance e delega ai servizi segreti. Argomenti sui quali, comunque vadano le cose, sarà difficile poter tornare indietro. Ed invece, ecco, il colpo di coda destinato a far crollare tutto.

Il nuovo piano, al di là delle chiacchiere, non cambia alcunché, ma è solo la fotocopia del documento presentato prima del vertice dell’8 gennaio. Unica concessione: una manciata di milioni, destinati ad integrare voci di spesa che cubano decine di miliardi. Più in particolare, al capitolo “digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura” vanno 320 milioni in più rispetto ai 45,86 miliardi originariamente stanziati (più 0,7%). Per la “rivoluzione verde e la transizione ecologica” si spenderanno, invece, 4 milioni in meno, rispetto ai 68.94 miliardi originariamente previsti (meno 0.06%), mentre per l’istruzione e la ricerca i milioni in più saranno 58 su 27.91 miliardi (più 2,1 %). Variazioni al margine. Onestamente è difficile ritenere che si sia trattato di un grande sforzo. Il complesso delle modifiche può essere valutato nello 0,39 per cento del totale degli stanziamenti, originariamente previsti. Più uno schiaffo in faccia, che non l’agognata mediazione.

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