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Berlusconi tra Agnelli, Cuccia e Geronzi. L’analisi di Paolo Bricco (Sole 24 ore)

Storia e profilo dell'imprenditore Silvio Berlusconi analizzato da Paolo Bricco, giornalista e saggista

 

Imprenditore visionario. Politico di rottura. Primo populista. Genio. Sono numerosissimi gli aggettivi e le definizioni che sono state associate a Silvio Berlusconi. Ognuna delle quali racconta solo un pezzo dell’uomo eclettico, complesso e controverso, che è stato il patron di Mediaset, di Mondadori, di Forza Italia e del Milan più bello e vincente della storia.

Proviamo a raccontare e analizzare la figura dell’imprenditore morto a 87 anni con Paolo Bricco, giornalista del Sole 24 ore, analista e saggista.

Lei ha scritto: Berlusconi uno dei paradigmi dell’imprenditore italiano del secolo scorso. Perché? In che senso?

L’economia italiana, soprattutto nella seconda parte del ‘900, ha una buona capacità innovativa, cosa che negli ultimi 20 anni è mancata. Fa due cose tipicamente italiane. La prima è prendere un settore tradizionale come l’edilizia e introdurre un meccanismo innovativo: le città satellite per la buona borghesia. Un modello che nasce, soprattutto dal punto di vista teorico, nel Nord Europa e viene poi applicato non in tantissimi casi in Europa, e in Italia viene portato per la prima volta da Berlusconi con Milano 2. L’idea è quella di uscire dal caos delle agglomerazioni urbane e dall’altro di fornire un’architettura urbanistica di qualità superiore. A Silvio Berlusconi, questa cosa riesce con Milano due a Segrate (MI). E questo paradigmatico dell’idea di prendere il settore tradizionale dell’edilizia, che in Italia non ha mai avuto spinta innovativa, è un settore obsoleto, molto retrò, alimentato dai sussidi dello Stato, e fare una cosa che la cambia radicalmente. Questo è il primo aspetto: l’innovazione in un settore tradizionale.

Il secondo aspetto?

Il secondo aspetto è fondare un nuovo settore. Con le sue televisioni riesce a uscire dalla dimensione microscopica delle televisioni locali che si erano create in grande quantità nella seconda parte degli anni ’70, e costruire un modello di televisione nazionale che è l’applicazione in Italia di un modello, la TV commerciale, che arriva direttamente dagli Stati Uniti e che si diffonde in Italia contemporaneamente alla diffusione in tutta Europa. Nel caso italiano rappresenta un settore nuovo perché propone un modello organizzativo, un modello di rapporto con il pubblico, una tipologia di prodotto televisivo che è antagonistico rispetto alla Rai ed è in qualche maniera distruttivo di quel modello. Tanto che poi scatta una specie di concorrenza nella televisione con la Rai e, dal punto di vista culturale, la TV commerciale vince perché costringe la televisione pubblica ad assomigliarle. Questo secondo elemento è paradigmatico. Naturalmente Silvio Berlusconi non ha scoperto la penicillina, l’ha diffusa in tutto il mondo. Però in un paese come l’Italia che era vincolato a una televisione pubblica completamente diversa, introduce un modello ex novo che cambia le regole del gioco.

Lei ha anche scritto che la cultura aziendale di berlusconiana è la prima in Italia che non si vergogna del benessere materiale acquisito e che quindi lo mostra, come mostra le belle donne. Vuol dire che in genere i capitalisti, gli imprenditori in Italia cercano di essere, di apparire sobri perché si vergognano?

Non è un discorso che riferisce all’oggi, è un discorso che si riferisce al tempo storico in cui quella cosa è accaduta, gli anni ’70 e ‘80, in cui esiste una egemonia culturale doppia: il cattolicesimo di sinistra e il Partito comunista italiano berlingueriano che faceva della questione morale un cardine del suo pensiero e della sua azione. Berlusconi prospetta sul mercato un modello di business antitetico, che esibisce oggetti e il corpo delle donne. Oggi ci sembrano straordinariamente sessista, all’epoca erano una liberazione edonistica che però arrivava non da sinistra, per usare vecchie categorie, ma arrivava da destra, quindi dal consumerismo americano. Tutto filtrato dal fatto che, nel caso di Berlusconi, il business era show business, era televisione. Lui costruisce questa cultura, e le persone che costruiscono giorno dopo giorno quella cultura mettono in pratica gli stessi tipi di valori e comportamenti. Quindi il gruppo manageriale che si forma intorno a Silvio Berlusconi aderisce alla cultura aziendale di Fininvest e a quella di Publitalia, entrambe estremamente competitive. Non c’è un limite di riservatezza, c’è l’ostentazione di sé, delle barche, delle Ferrari, delle donne, delle fidanzate, delle amiche, delle amanti, fa tutto parte dello show business. I dirigenti di Fininvest e Publitalia erano antropologicamente molto diversi dai dirigenti di Montedison, o della Fiat, di Mediobanca, Olivetti o dall’alto dirigente dell’IRI. Erano cose completamente diverse.

Silvio Berlusconi nel corso della sua carriera si è vantato di non aver mai fatto parte dell’establishment, né all’inizio né nel proseguo della sua carriera. Quello che oggi potremmo chiamare underdog. È così?

Sì, ma in parte. L’establishment italiano è fondato sostanzialmente su due grandi gruppi: il gruppo Fiat Agnelli e Mediobanca, tra Torino e Milano, e poi l’establishment delle grandi aziende pubbliche, è fondato sostanzialmente sul management tecnocratico di estrazione cattolica dell’IRI. Silvio Berlusconi, che opera al Nord, ha come contraltare l’establishment della Fiat di Agnelli e di Mediobanca. Lui è stato assolutamente ed è considerato un homo novus perché da un lato è oggettivamente vero che è partito da zero, dall’altro, negli anni ‘80, grazie all’enorme capacità generativa di cassa da parte di Fininvest e di Publitalia è riuscito a non avere mai bisogno delle banche. E quindi cosa succedeva? Succedeva che è sempre riuscito a sviluppare i suoi progetti e ricorrendo al credito bancario, ma senza diventare una pedina nelle mani della Mediobanca di Enrico Cuccia o della Banca commerciale o Intesa San Paolo. Quindi non ha fatto parte dell’establishment, dall’altro lato lui stesso è diventato establishment.

Quando è diventato establishment?

Quando ha finanziato la rete di promotori finanziari e raccolta del risparmio gestito di un altro imprenditore venuto dal nulla, Ennio Doris che fonda Mediolanum e di cui Silvio Berlusconi faceva parte sin dall’inizio con circa il 30% del capitale. Ecco, Banca Mediolanum è uno straordinario successo con cui, parallelamente a tutte le altre attività imprenditoriali, riesce a costruire una grande polmone finanziario e alla fine si crea una situazione in cui Silvio Berlusconi diventa establishment. E non ha più bisogno del vecchio establishment che, peraltro, sta iniziando a invecchiare, sta andando in crisi, gli Agnelli iniziano a perdere i colpi, non hanno più grip sull’industria dell’auto. A quel punto Silvio Berlusconi da persona estranea all’establishment, diventa lui stesso establishment.

Com’erano i rapporti fra Berlusconi e il sistema Agnelli-Mediobanca. È vero che Agnelli vedeva di buon occhio la discesa in campo di Berlusconi?

Direi di no. Agnelli aveva un atteggiamento cinico nei confronti di quella operazione. C’era una famosa frase attribuita ad Agnelli secondo la quale se Silvio Berlusconi scendeva in campo e vinceva, vincevano tutti gli imprenditori, mentre se avesse perso avrebbe perso da solo. Di certo il mondo in cui si muovono gli Agnelli è un mondo completamente diverso, è il mondo della prima Repubblica. La seconda Repubblica che si genera con la crisi di Tangentopoli, la fine delle grandi partecipate di Stato, il conflitto violento tra magistratura e classe politica della prima Repubblica, genera un quadro politico imperniato su Berlusconi e sul bipolarismo in cui gli Agnelli fanno molta più fatica a muoversi. La famiglia Agnelli ha dato due esponenti importanti storici della prima Repubblica, c’è Umberto Agnelli che ha militato nella Democrazia Cristiana, e la sorella di Gianni Agnelli, Susanna Agnelli, è stata anche ministro in quota Partito Repubblicano. Era un rapporto molto stretto e molto forte con la politica, anche in virtù del fatto che gli Agnelli iniziano il loro declino durante la rimodulazione della seconda Repubblica.

Oscar Giannino sul Foglio ha scritto che nei primi anni degli anni Novanta Berlusconi e Cuccia si incontrarono ma non trovarono una intesa quando il gruppo berlusconiano aveva problemi finanziari: Mediobanca chiedeva che Berlusconi si defilasse di fatto nella gestione del gruppo ma Berlusconi disse no. È vero?

Sì, assolutamente, Silvio Berlusconi in quel momento aveva grossi problemi finanziari legati al fatto che c’era stata la speculazione sulla lira di Soros, l’Italia era dovuta uscire dallo SME, c’era stata la manovra del governo Amato che aveva fatto un prelievo forzoso sui conti degli italiani, c’era stato un credit crunch molto forte. In quella situazione Fininvest porta i libri in Mediobanca e lì gli prospettano la classica cura: noi vi diamo i soldi ma scegliamo noi il management. Silvio Berlusconi, come ricorda Oscar Giannino, dice di no e riesce a trovare la via d’uscita con la quotazione in borsa. Questa viene fatta non attraverso gli uffici tecnici delle banche milanesi, quindi Mediobanca, ma attraverso quelli del Banco di Roma di Cesare Geronzi. E li si costruisce un fortissimo rapporto umano tra Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi che consentirà a quest’ultimo di proseguire una carriera già buona e farla diventare ottima negli anni ’90.

Come mai non c’è traccia nell’eredità di Berlusconi di iniziative e imprese culturali d’impronta liberale e liberista che pure lui ha professato? Nessun quotidiano di carta o web di sua proprietà, nessuna rivista culturale (Ideazione visse pochissimi anni), nessun centro studi e neppure la tanto annunciata e promessa università liberale. Come mai?

Da un punto di vista culturale e politico il liberalismo in Italia non è mai esistito, l’economia italiana è sempre stata pubblica, regolamentata e con grandi imprese che hanno sempre beneficiato del rapporto con il regolatore. Lo stesso è successo a Berlusconi. Negli anni ’80 lo sviluppo dell’impresa Fininvest, televisiva e di raccolta pubblicitaria, avviene con la edificazione dell’impresa, non con la costruzione delle condizioni di mercato pro-concorrenza, e da questo punto di vista è fondamentale il rapporto con il regolatore, cioè con la politica. Non a caso, quando una parte della magistratura prova a bloccare le trasmissioni nazionali via etere c’è uno sblocco della situazione da parte del partito socialista e poi si costruisce, ex post, la strutturazione di un mercato che è molto regolato. A mio avviso occorre essere estremamente razionali e precisi sulla definizione di che cos’è il mercato, di che cos’è concorrenza, di che cosa è impresa. Lui è stato un imprenditore di impresa più che di mercato e quindi, anche dal punto di vista culturale, lui è stato un moderato di destra e non un assertore forte della concorrenza e della libertà di impresa. Cioè sì, libertà di impresa, ma l’accento viene messo sulla parola impresa. E questa è una cosa diversa da mercato concorrenziale con bassi costi di accesso al mercato, rapidità dell’uscita dal mercato, sussidi bassi, regolazione minima. Lui è un imprenditore italiano, è frutto della storia italiana. La storia italiana ha poco a che fare con la storia di mercati aperti e di concorrenza.

Sarebbe stato possibile avere una figura come quella di Berlusconi, imprenditore, politico e uomo capace di incidere così profondamente sulla cultura italiana, in un periodo storico diverso da quello in cui è vissuto?

No, perché a mio avviso lui rappresenta benissimo lo spirito di quell’Italia, ha proprio le caratteristiche dell’imprenditore che nasce in un momento di energia pazzesca, in un momento in cui c’è una tendenza concentrata su business tipici come quello dell’edilizia. A questo aggiungiamo che accompagnerà la modernizzazione dei costumi negli anni ‘80 con la televisione e arriva fino alla trasformazione definitiva del business in show business che si realizza con il calcio allora. Da questo punto di vista lui è esattamente figlio dello spirito del suo tempo. Peraltro, aggiungo un particolare che va evidenziato. Tutto il tema dei soldi con cui ha iniziato Berlusconi è stato spesso trattato soprattutto dal punto di vista giudiziario, esiste anche un punto di vista storico-culturale più ampio. L’Italia degli anni ‘60 e ‘70 era un paese straordinario in espansione economica dove intere parti del Nord si sono arricchite creando enormi polmoni finanziari di nero. E quei soldi entravano, uscivano dal sistema tramite società, tramite attività in Svizzera, anche piccole banche di Milano e del Canton Ticino. Ecco questo è estremamente significativo e lui è veramente lo specchio di un paese. Lui rappresenta, nelle cose positive e in quelle negative, lo spirito di quei tempi.

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