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Banche popolari, quell’obiter dictum del Consiglio di Stato trascurato dalla stampa

L'intervento di Corrado Sforza Fogliani, presidente Assopopolari

 

La circostanziata sentenza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale del 31 maggio scorso è passata per lo più inosservata, a motivo del fatto che l’interesse era per lo più per la circostanza che essa determinasse o meno l’obbligo di conversione in spa dell’ultima banca (su dieci) rimasta indenne dalla riforma Renzi. Ma è stata una trascuratezza probabilmente dovuta al fatto che certi ambienti hanno sempre visto di malocchio il voto capitario che caratterizza questa categoria di banche, impedendone la conquista da parte dei fondi speculativi.

In realtà, la sentenza è invece di estrema importanza, per un suo obiter dictum che affronta il problema cosiddetto della società holding, giungendo alla conclusione che i motivi di ricorso al riguardo dovessero essere considerati improcedibili giacché — sulla base delle precisazioni operate dalla Banca d’Italia avanti il Consiglio di Stato — “diversamente da quanto dedotto gli (rectius: dagli) appellanti, l’indicazione censurata non potrebbe vietare ai soci di una ex Popolare di costituire autonomamente una holding detentrice del controllo di una società per azioni bancaria, anche ove risultante dalla trasformazione della ex Popolare in applicazione delle disposizioni recate dall’art. 1, DL n. 3/‘15”. In sostanza, grazie alla sentenza del Consiglio di Stato (pres. Savatino; est. De Luca), è ora giudicato possibile effettuare la trasformazione in società per azioni di banche popolari — che insieme supererebbero la soglia di 8 mld di euro — mediante la costituzione di una società holding intermedia nella quale potrebbero confluire una o più banche. E potrebbe anche essere verificata l’aggregazione di banche di credito cooperativo (BCC) seguendo le particolari procedure previste dalla legge applicabile a tali banche. Queste società aggregate potrebbero quindi dare vita a banche di territorio su base regionale, con l’obiettivo di contribuire alla risoluzione dei problemi economici, sociali e culturali delle regioni nelle quali operano. Nell’immediato futuro, le banche di territorio potrebbero inoltre dimostrare la loro utilità contribuendo a canalizzare in modo corretto ed affidabile le enormi quantità di denaro che stanno per essere messe a disposizione dell’Italia dal Recovery Fund.

Quella del Consiglio di Stato — sia pure nella sua emblematica sinteticità — è dunque un’indicazione pressoché rivoluzionaria. Oltretutto, è — questa della holding — una strada facilmente percorribile e, comunque, certo più di altre, ispirate a modelli in uso solo all’estero ed, anche, autorevolmente suggerite.

Come ha recentemente sottolineato il Presidente dell’Abi Antonio Patuelli (Bancaria, n. 4/‘21), “gli anni Trenta (del ‘900) furono caratterizzati anche dalla nascita del corporativismo e dalla lotta alla libera concorrenza”. Non a caso la normativa della più volte precitata riforma, riproduce pressoché sostanzialmente una disposizione del 1927 contro le banche di territorio, che erano anche allora in gran parte Popolari — più di mille, in epoca liberale — e quindi caratterizzate dalla indipendenza e dalla mancanza di nomina dei loro esponenti da parte del potere politico.

In tutto il mondo, poi, le grandi banche sono cresciute e crescono, in modo assolutamente maggioritario, per linee interne, così appieno salvaguardando reti di miriadi di banche locali, che caratterizzano infatti gli Stati Uniti, il Canada, la stessa Germania ed anche la Francia (ove, addirittura, grosse banche sono basate sul sistema cooperativo delle Popolari e di azioni non quotate, quindi non esposte ai capricci della borsa, con la stessa formula espandendosi anche all’estero, come ben sappiamo proprio in Italia). Al contrario, l’Italia non ha neppure più un proprio sistema bancario, che rimane infatti “italiano” solo perché in Italia sono le sedi legali delle banche situate sul nostro territorio, peraltro non più a capitale italiano prevalente, tanto più ove si consideri che nelle spa governa chi ha il 10-20%. Le maggiori banche “italiane” — invero — sono, quanto ai loro primi trenta azionisti, al 96% e all’85% estere; parecchie di esse hanno sedi all’estero e, specificatamente, nei paradisi fiscali; quanto poi alle Popolari trasformatesi in spa e sopravvissute alla riforma o comunque al disdoro creato intorno ad esse, le stesse sono passate dall’avere un capitale totalmente italiano ad averne uno, sempre quanto ai primi trenta azionisti, estero all’83% in media, con una banca che giunge addirittura al 96%. Come risultato ai fini dell’avvento del mitico oligopolio bancario, siamo certo a buon punto, e le piccole e medie imprese, oltre che le famiglie, sono in difficoltà, per l’aspetto credito, in molte zone del Paese.

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