Le dichiarazioni rese da Mario Draghi, nel suo discorso d’investitura alla Camera dei deputati, si sono dimostrate profetiche. “Non è una buona idea – aveva detto – cambiare le tasse una alla volta. Un intervento più complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il Governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli”. In un Paese men che normale l’invito sarebbe stato accolto. Nominata una commissione ristretta, come avvenne negli anni ’70, per procedere alla grande riforma dell’Irpef. Una delle tante cose che fa rimpiangere la Prima Repubblica, rispetto alle successive contorsioni del sistema politico italiano.
Ed invece le sirene elettorali hanno subito preso il sopravvento. Non un gruppo ristretto di tecnici per dipanare una matassa che più complicata non si può. Ma un’indagine conoscitiva monstre presso le Commissioni parlamentari, in cui gli interventi, pure qualificati che si sono succeduti, servivano principalmente da copertura a favore di coloro che in testa avevano una idea precisa. Ridurre le aliquote solo per alcune fasce di reddito, quelle comprese tra i 28 ed i 55 mila euro all’anno, al fine di catturare i favori di quella classe media, che soffre maggiormente di un’aliquota marginale eccessiva. Costo allora previsto circa 9 miliardi: difficili da reperire in una situazione di relativa stabilità. Figuriamoci con un deficit di bilancio a due cifre, quale l’attuale, nonostante i miglioramenti più recenti.
Ma cosa è rimasto dell’impegno iniziale, enunciato dal presidente del Consiglio? Sembrerebbe poco, almeno a prima vista. Subito dopo la tornata amministrativa il Consiglio dei ministri analizzerà sia la proposta di riforma del catasto urbano, sia la delega fiscale. Si è quindi ritornati alla politica del carciofo, mandando in soffitta tutte le migliori intenzioni? Questa almeno la critica, da parte dell’opposizione e non solo. Se tuttavia non ci si ferma alla superficie delle cose, le conclusioni potrebbero essere diverse.
C’è, infatti, un dato da cui è difficile prescindere. Al momento non esistono le condizioni politiche per realizzare alcunché. Un argomento che più sensibile non si può, come la riforma fiscale, richiede una maggioranza parlamentare, degna di questo nome. Non certo quel coacervo di forze politiche che oggi sorregge un esperimento dettato dall’emergenza. Già nelle prossime settimane si vedrà se i provvedimenti richiamati – catasto e delega fiscale – verranno alla luce o se, invece, verranno rinviati ulteriormente. Ma anche qualora fossero approvati, avranno solo un effetto marginale.
Lo stesso presidente del Consiglio, nel corso della sua conferenza stampa sulla Nadef, ha precisato che la riforma del catasto non determinerà alcuna variazione del carico fiscale sulle singole abitazioni. Il che lascia, per lo meno, dubbiosi. Se non serve a questo, perché sprecare tempo ed energie? È una semplice esercitazione accademica? La risposta sta nei tempi. Questo provvedimento, come la legge delega, è scritta a futura memoria. Entrambe potranno avere attuazione solo nel momento in cui vi saranno le condizioni politiche per procedere ad una riforma che non sia né improvvisata, né rispondente all’interesse elettorale di questo o di quel partito. Nel frattempo, comunque, il nuovo catasto sarà utile per gettare le basi su cui andrà costruito il nuovo regime, tenendo conto delle gravi disfunzioni che ne caratterizzano l’attuale portata. Gli immobili attualmente censiti sono solo una parte. Una sua riforma è se non altro necessaria per esorcizzare le tante abitazioni-fantasma.
Tutto bene allora? Nel secondo caso, molto di penderà dalla legge delega, da cui si potranno dedurre i principi che si intenderanno seguire. E che successivamente informeranno i decreti delegati. Dal nostro punto di vista, ciò che più interessa è la sua possibile sistematicità. Tenendo conto del quadro europeo e dei grandi numeri che caratterizzano ciascun regime fiscale. Secondo le elaborazioni della Banca d’Italia, nel nostro Paese la pressione fiscale è ben più alta, rispetto ai valori medi dell’Eurozona. Il sorpasso si è verificato nel 2006 e da allora la differenza media è stata pari a 1,7 punti di Pil all’anno. Mica poco: considerato che grazie a questi maggiori introiti l’Italia ha coperto circa l’80 per cento della maggior spesa per interessi. C’è solo da aggiungere che anche la spesa corrente, al netto degli interessi, non mostra alcuna criticità: essendo in linea con gli standard dell’Eurozona.
Alla luce di questi elementi dovrebbe risultare relativamente agevole vedere dove mettere le mani. Sgombrando fin dall’inizio il campo da un argomento: quello dell’equità. Il sistema attuale è sufficientemente progressivo? Trattandosi di un giudizio di valore, meglio far parlare i dati forniti dall’Agenzia delle entrate. Essi sono tratti dalle dichiarazioni del 2019, relative ai redditi 2018. Tengono quindi conto sia delle aliquote per i diversi scaglioni di reddito che delle agevolazioni fiscali concesse che, come noto, si concentrano quasi esclusivamente, sulle fasce più basse di reddito. Ebbene il 24,9 per cento dell’Irpef è sostenuto dal 71,7 per cento dei contribuenti. Il 48,7 per cento dal 23,7 per cento. Mentre il 26,4 dal rimanente 2,8 per cento dei contribuenti. Questi dati fanno una certa impressione. Forse ipotizzare una flat tax generalizzata è eccessiva. Ma lo è altrettanto una distribuzione così accentuata del carico fiscale. Se non ci fosse quel pugno di Paperoni che si carica del 26,4 per cento del gettito Irpef, lo Stato italiano sarebbe da tempo fallito.
Non sembra, quindi, essere questo il problema principale del fisco italiano. La sua vera gigantesca anomalia è la vastità del fenomeno dell’evasione che, secondo le valutazioni correnti, appare essere doppia rispetto a quella degli altri Paesi dell’Eurozona. Stando almeno ad un rapporto del Parlamento europeo del 2019. In particolare nel caso dell’IVA mentre l’evasione in Germania è del 10 per cento ed in Francia dell’11 per cento del Pil, in Italia questa percentuale sarebbe pari ad oltre il 26 per cento. E poiché, secondo valutazioni nazionali, l’evasione sull’Iva sarebbe più o meno pari a quella sull’Irpef, ecco allora che quel 6,23 per cento del Pil nazionale 2018, (a tanto ammonterebbe l’evasione complessiva) si potrebbe quanto meno dimezzare. Recuperando una cinquantina di miliardi in grado di contribuire, al tempo stesso, al pagamento della rata d’interessi e destinare quel che avanza ad una riduzione del carico fiscale.
Ecco allora perché l’impegno contro l’evasione diventa prioritaria, sia per ovvie ragioni di equità, sia per modernizzare, in senso europeo, la struttura del Paese. Ma attenzione: questa battaglia non si vince con le sole forze di polizia. Servono, ovviamente, anche quelle. Il fenomeno, come del resto fu quello del terrorismo, ha un forte connotato sociale. Si è vittoriosi solo se gli evasori vengono progressivamente isolati, dando al popolo (il contrasto d’interesse come negli USA?) le armi per combattere. Vedremo se la delega fiscale si farà carico, ed in che modo, di questo problema. Restiamo dell’ipotesi che, in una società ispirata ai principi liberali, il sistema fiscale deve essere soprattutto efficiente, ai fini della raccolta dei tributi. Al sociale si deve provvedere in altro modo, orientando prevalentemente la spesa pubblica, per far fronte ai bisogni dei più fragili. Mescolare, oltre misura, i due momenti, quello del prelievo e della spesa, rischia solo di generare quel grande mostro che è il fisco italiano in cui è difficile non solo reprimere gli abusi, ma capire esattamente dove la solidarietà si trasforma in una perversa furbizia.