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Tunisia

A che punto è la pandemia economica

L'analisi di Gianfranco Polillo sulla pandemia tra economia e sanità

 

Su aperture e chiusure degli esercizi commerciali il confronto si fa serrato. Vari i motivi che vi concorrono. Su tutti l’insofferenza che nasce da una crisi senza precedenti che colpisce, in prevalenza, solo alcuni ceti sociali. Chi ha un reddito fisso, infatti, in qualche modo riesce a sbarcare il lunario. Alcuni, come dipendenti pubblici e pensionati, bene. Altri, come i dipendenti privati, così così. In questo secondo caso, infatti, scatta una vera e propri riffa tra coloro che sono posti in cassa integrazione e coloro che continuano a lavorare più o meno a pieno ritmo. Se poi sono in smart working si sommano vantaggi – il tempo non più perso per gli spostamenti – e svantaggi: il confinamento dentro le mura domestiche. Per tutti gli altri, invece, è un piccolo grande disastro.

Nel corso del 2020, il valore aggiunto ai prezzi di mercato prodotto in Italia, che coincide con il Pil, si è ridotto del 7,8 per cento, secondo i dati elaborati dall’Istat. La caduta, tuttavia, non è stata uniforme nei vari settori produttivi. Da un minimo del 3,8 per cento dell’agricoltura, si è passati al 5,2 per cento delle costruzioni, e al 7,9 dell’industria. Nei servizi, che da soli hanno fatto il 67 per cento del Pil, la caduta è stata del 7,2 per cento. Ma il dato medio è poco significativo. Vi sono alcuni comparti, come il commercio e la ristorazione che hanno subito una flessione del 14,6 per cento, mentre nel pubblico (difesa, istruzione salute e servizi sociali) si è perso solo lo 0,6 per cento. Tra questi due estremi: le attività professionali subiscono una flessione del 10,5 per cento e quelle artistiche del 13,3. Solo per citarne alcune.

Da un punto di vista concettuale, il valore aggiunto altro non è che il reddito prodotto da ciascun settore: per cui la somma coincide con il reddito nazionale. Da un diverso punto di vista rappresenta l’insieme dei mezzi di sostentamento che fanno capo a coloro che il reddito hanno prodotto. Nel 2020, in valore assoluto le perdite complessive sono state pari a 139,4 miliardi. Di cui 115 a carico del sistema produttivo e 24,3 destinate a gravare sull’Erario, a seguito della caduta delle imposte indirette (IVA, accise ecc.). A fronte di tutto ciò, gli esborsi complessivi da parte dello Stato hanno prodotto un maggior deficit di bilancio pari a 119 miliardi, rispetto al 2019.

In apparenza la differenza è quindi di una ventina di miliardi. Sennonché se si approfondisce l’esame i risultati sono ben peggiori. Quel maggior deficit è frutto innanzitutto delle minori entrate, per 53,8 miliardi e delle maggiori spese per il welfare, che ammontano a 39 miliardi: malattia, vecchiaia, morte, disoccupazione, assegni familiari, infortuni sul lavoro ecc. Come “ristori” veri e propri, secondo il lessico burocratico dei DPCM, si sono spesi, ben che vada, appena 26 miliardi. A fronte di perdite pari a 119 miliardi. Ne consegue che i rimborsi o i ristori, che dir si voglia, non hanno superato in media il 20 per cento delle perdite subite. Gravanti, quasi esclusivamente, su determinate categorie sociali.

Per capire la dimensione del problema, si deve considerare che le partite Iva, secondo i dati delle dichiarazioni dei redditi 2019, resi noti dal Dipartimento Finanza del Mef, sono pari a poco più di 3.600 persone. Sempre secondo quei dati, rappresentano il 9 per cento dei contribuenti ed il loro reddito è stato pari al 10,4 per cento del totale dichiarato da tutti i contribuenti. Per inciso, in Italia, si parla molto della necessità di garantire una più equa distribuzione del reddito. I dati del Ministero sembrano dimostrare il contrario. Per le grandi categorie (dipendenti, pensionati e partite IVA) il numero delle frequenze tende a coincidere con quello della partecipazione al reddito. I pensionati, ad esempio, rappresentano il 35,9 per cento dei contribuenti. A loro spetta il 33,9 del reddito complessivo. La disposizione grafica di questi tre grandi gruppi sociali avviene intorno ad una retta di 45 gradi: segno evidente di una forte perequazione.

Ma se questo è vero, allora su quel 9 per cento dei contribuenti si è scaricata una perdita del Pil pari all’80 per cento del totale, mentre i pensionati ne sono usciti indenni ed il restante 20 per cento è stato posto a carico dei dipendenti, che sono tuttavia il 55,2% dei contribuenti. Tradotto, questo significa che chi è stato posto in cassa integrazione ha subito una contrazione del proprio reddito. Ma per le partite Iva la perdita è stata quasi totale.

Per tornare al disagio manifestato da coloro che sono stati tra i più colpiti, la prima osservazione che viene da fare è che ci vorrebbe un po’ più d’umanità. Avere nei loro confronti non quel senso di fastidio per le legittime proteste, ma un minimo di partecipazione. Rinunciare, poi, ad imbastire, come sta avvenendo, una campagna politica che mira soprattutto a delegittimare quelle forze politiche che più spingono per una diversa soluzione dei problemi. Dati della pandemia, ovviamente, permettendo. Ed invece da questo secondo elemento si prescinde completamente denunciando irresponsabili ed inutili impazienze. Non va bene.

È giusto cominciare a ragionare sul futuro più immediato? Come sta andando la pandemia? Questo deve diventare il punto centrale di ogni discussione. Se le cose, come si spera, andranno meglio, allora è bene cominciare a ragionare in chiave diversa. Se, invece, così non fosse, allora inutile alimentare inutili speranze. Ancora una volta, pertanto, bisogna partire dai numeri. Qual è il quadro?

La terza ondata del Covid-19 è iniziata, all’incirca, nella seconda decade di febbraio. Da allora si sono verificati cinque cicli settimanali, dovuti al fatto che il numero dei tamponi nei giorni festivi ed anche prefestivi diminuisce e quindi il numero dei nuovi contagi tende a scendere. Non perché non ci siano (chi può dirlo?) ma perché non sono certificati. Fino alla metà di marzo il numero dei contagiati è progressivamente cresciuto. Il picco relativo si registrava verso la fine della settimana, per poi decrescere. Il più alto di tutti, con 26.824 contagi, è stato raggiunto venerdì 12 marzo. Da allora i picchi sono stati decrescenti. Ieri, i nuovi positivi sono stati pari a 12.916. Che è il numero più basso dall’inizio della terza ondata.

Diversa è la situazione sul fronte ospedaliero. Data la lunghezza del decorso della malattia, il numero dei ricoverati tende, ovviamente, ad aumentare. Ma in numero più ridotto. L’incremento medio giornaliero che fino al 19 marzo era stato pari a 376, si riduce a 231. Quello delle terapie intensive da 52 a 36. Mentre aumenta, purtroppo, il numero dei deceduti che passa da un incremento medio di 329 casi a 411. A ricordarci di quanto possa essere infame l’andamento pandemico.

I dati che abbiamo fornito, ovviamente, inducono alla prudenza. Ma spingono anche a studiare, fin da ora, nuove possibili soluzioni. Per essere pronti ad intervenire nell’eventualità in cui il trend positivo dovesse continuare. La soluzione, infatti, non può essere il “giorno x” dell’immunità di gregge, una volta completata, fino all’ultimo uomo, la vaccinazione di massa. Questo deve rimanere il caso estremo, nelle peggiori delle ipotesi possibili. Molto più del normale pessimismo della ragione, che quando non è illuminato dall’ottimismo della volontà è solo destinato a produrre immani disastri.

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