La querela fa luce sulle nuove frontiere degli acquisti online, dedicati ai giochi acquistabili tramite pagamenti freemium, di grande tendenza negli ultimi tre anni. Queste applicazioni consentono di scaricare su app-in gratuite, moneta virtuale, che consente metodi di pagamento allegati ai conti dei negozi rivenditori per l’acquisto di contenuti tra cui non solo giochi, ma anche musica, film e libri.
Google fronteggia una class action sostenuta dalla donna, secondo la quale, il potente colosso americano “è ingiustamente beneficiario ” dei metodi di pagamento freemium, poiché essi consentono spese non autorizzate “delle app-in gratuite senza il controllo dei genitori “. Con questi acquisti freemium, le applicazioni vengono offerte gratuitamente, o a un costo nominale al di sotto di 2 dollari, offrendo acquisti app-in, che, o forniscono moneta virtuale per permettere ai giocatori di continuare a giocare il gioco oltre un punto o un limite di tempo , o consentono l’acquisto di nuovi personaggi, oggetti o livelli all’interno dello stesso gioco.
Gli editori offrono giochi gratis per smartphone e tablet, e gli utenti sono sempre più reticenti a pagare le somme in anticipo di 10 dollari o più, che sono tradizionalmente associate con giochi per altre piattaforme come le console. Shannon J. Carson di Berger & Montague , uno degli avvocati che rappresentano Imber – Gluck, il cui studio legale ha condotto una class action contro Apple nel 2011, che ha portato a una detrazione di circa 100 milioni di dollari, ha affermato:” Google trae ingiustamente profitto attraverso la commercializzazione di giochi gratuiti o a basso costo per i bambini e consentendo loro di accumulare facilmente le spese per inutili monete online, non includendo controlli ragionevoli come la semplice immissione di una password “.
A seguito della maxi-inchiesta contro l’azienda di Cupertino, “Google è certamente consapevole che il suo principale concorrente, Apple, ha preso provvedimenti per porre fine a tale pratica sleale, e Google dovrebbe fare lo stesso “, ha detto la Carson. Google non ha ancora risposto alla citazione in giudizio dal momento della pubblicazione.
Antonio Di Mare / Samuel Gibbs per “The Guardian”