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Cloud, la mossa molto politica e poco tecnologica di Airbus

Capacità industriale europea, uso effettivo del cloud e competitività tecnologica. Ecco le vere questioni poco discusse dopo la mossa di Airbus. L'analisi di Walsingham

La decisione di Airbus di preparare un bando da oltre 50 milioni di euro per migrare sistemi mission-critical verso un cloud europeo “sovrano” è stata accolta, soprattutto in Italia (anche se a 7 giorni dallo scoop di The Register), come la conferma di una svolta epocale: l’industria europea che si emancipa finalmente dai grandi provider tecnologici statunitensi. Una lettura suggestiva, ma profondamente incompleta. Perché il dossier Airbus non nasce come una necessità tecnica improvvisa, né come una reazione emergenziale al contesto geopolitico, ma come un’operazione eminentemente politica, che affonda le radici nella governance del gruppo e, in particolare, nella storica spinta francese su una nozione di sovranità digitale fortemente dirigista.

Il racconto mediatico italiano si concentra quasi esclusivamente sul CLOUD Act e sull’aggressività di Donald Trump, come se la questione fosse un referendum emotivo sul CLOUD Act o su Trump. In realtà, il tema è un altro: capacità industriale europea, uso effettivo del cloud e competitività tecnologica. Tutto il resto è cornice.

AIRBUS E LA SPINTA POLITICA FRANCESE

Airbus non è una multinazionale qualunque. È un campione industriale europeo con una struttura di governance fortemente condizionata dagli Stati azionisti, in primis Francia, Germania e Spagna. L’azionariato pubblico ha un peso diretto e indiretto nelle scelte strategiche, e la Francia ha storicamente utilizzato Airbus come leva di politica industriale e tecnologica. È in questa chiave che va letta la centralità del concetto di “sovranità digitale” nel discorso aziendale, molto prima che come una scelta puramente tecnologica.

Non è un caso che la strategia cloud sia guidata da Catherine Jestin, Executive Vice President Digital, entrata nel Comitato Esecutivo nel 2021. La sua nomina avviene in una fase in cui Parigi spinge apertamente per un rafforzamento di soluzioni tecnologiche europee “controllabili”, anche a costo di sacrificare parte dell’efficienza economica e della velocità di innovazione. Airbus diventa così uno strumento di pressione politica e industriale, più che un semplice utilizzatore di tecnologia.

Il bando in preparazione – con uscita prevista a inizio 2026 e decisione entro l’estate – riguarda ERP, sistemi di produzione, PLM e CRM, con un contratto di lungo periodo, fino a dieci anni. Ma lo stesso gruppo ammette che la probabilità di trovare un fornitore europeo in grado di soddisfare tutti i requisiti è dell’80%. Quel 20% mancante è il punto politico: oggi in Europa non esiste un’offerta cloud completa, scalabile e paragonabile a quella degli hyperscaler globali. Lo sottolineano anche analisi indipendenti e la stampa economica, che parlano apertamente di “ricerca disperata” di un’alternativa europea credibile.

LE NOTIZIE CHE MANCANO NEL DIBATTITO ITALIANO

Il racconto pubblico italiano tende a rimuovere alcuni fatti scomodi. Primo: Airbus non ha affatto “rotto” con i provider americani. Nel 2025 ha firmato un accordo con Amazon per fornire connettività alle compagnie aeree tramite la rete satellitare LEO, come riportato da Reuters. Un’intesa strategica che dimostra come Airbus continui a collaborare con operatori statunitensi quando questo è funzionale al business, smontando la narrativa di una presunta “uscita” dall’ecosistema tecnologico USA.

Secondo: la narrativa secondo cui Airbus “abbandona Microsoft” è parziale. Airbus cerca di ridurre la dipendenza per alcuni workload critici, ma resta inserita in un ecosistema tecnologico globale dove software, hardware, chip e infrastrutture di base restano in larga misura extra-europee. Anche Il Sole 24 Ore ha evidenziato come il tema non sia l’abbandono dei big tech, ma la difficoltà di sostituirli integralmente senza perdere funzionalità e innovazione. Parlare di “uscita dal cloud USA” è, tecnicamente, un’esagerazione.

CLOUD ACT, CRITTOGRAFIA E IL MODELLO PSN

Il CLOUD Act è diventato il perno simbolico del dibattito, ma spesso senza comprensione tecnica. I dati nel cloud sono cifrati dal provider e, nei modelli più avanzati, possono essere cifrati anche lato cliente, con chiavi detenute dall’organizzazione. In questo scenario, l’accesso ai dati è tecnicamente impedito, anche in presenza di pressioni legali. È qui che il modello del Polo Strategico Nazionale (PSN) italiano rappresenta un riferimento importante: il PSN ha dimostrato che è possibile mettere in sicurezza i dati della Pubblica Amministrazione separando governance, controllo delle chiavi e responsabilità, riducendo così qualsiasi rischio di accesso non autorizzato in fase operativa.

Rilevare che questa separazione non sia sufficiente da sola a garantire “sovranità tecnologica” realizzabile non significa negare la necessità di misure di sicurezza: significa piuttosto capire che la sicurezza dei dati è un prerequisito, non un obiettivo finale. Il problema vero è un altro: una volta messi in sicurezza, quei dati non vengono utilizzati per costruire sviluppo, servizi avanzati e crescita economica.

IL SOTTOUTILIZZO DEL CLOUD CHE FRENA LA CRESCITA

Qui si innesta il nodo centrale, che nel dibattito italiano ed europeo resta marginale. L’Europa non soffre di un eccesso di cloud, ma del suo sottoutilizzo, soprattutto dei servizi avanzati: analytics, intelligenza artificiale, automazione dei processi, integrazione dei dati. Servizi che oggi, piaccia o no, sono forniti quasi esclusivamente dai grandi provider globali.

Secondo le stime di mercato, oltre il 70% del cloud pubblico europeo è oggi in mano a operatori statunitensi, non per un complotto geopolitico, ma perché sono gli unici ad aver sviluppato piattaforme complete e mature. Rinunciare a questi servizi senza alternative equivalenti significa ridurre la capacità di usare i dati di cittadini e imprese in chiave pro-europea, comprimendo produttività e crescita.

È esattamente il punto sollevato da Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività europea: senza infrastrutture digitali moderne e pienamente utilizzate, l’Europa è destinata a perdere terreno rispetto a Stati Uniti e Asia. La sovranità digitale, se non si traduce in uso effettivo della tecnologia, diventa un freno, non una protezione.

Cosa dice il Dipartimento della Trasformazione Digitale

Su questo punto si è aperto su LinkedIn un confronto tra Antonio Baldassarra, imprenditore del cloud e CEO di Seeweb, e Serafino Sorrenti, capo della Segreteria Tecnica dell’ufficio guidato dal Sottosegretario alla Trasformazione Digitale, il senatore Alessio Butti. Baldassarra ha criticato l’idea di una sovranità tecnologica “chiusa”, che rischia di imitare in modo inefficace il modello statunitense.

Sorrenti ha chiarito che la sovranità digitale non è autarchia, ma capacità di governo, resilienza e scelta: in questa prospettiva, il Polo Strategico Nazionale rappresenta un modello europeo possibile, fondato su sicurezza dei dati e controllo pubblico senza rinunciare all’uso della migliore tecnologia cloud, nominando specificamente i partner del PSN: AWS, Google, Microsoft e Oracle. La vera alternativa, quindi, non è tra cloud europeo o americano, ma tra gestione intelligente delle dipendenze e rinuncia preventiva all’innovazione.

SOVRANITÀ DIGITALE: LA PARTITA VERA È GOVERNANCE E CONTINUITÀ

In questa prospettiva, il tema non dovrebbe essere “chi è il fornitore”, ma quali garanzie di governo e continuità operativa l’Europa è in grado di imporre. L’European Sovereign Cloud di Amazon Web Services mostra un approccio pragmatico: infrastrutture costruite e operate nell’UE da una società europea con amministratori cittadini e resident UE, separazione dedicata e controlli sovrani.

Ma il punto non è il singolo progetto: all’Unione servono infatti molti più investimenti di questo tipo. E in cambio dell’accesso a workload di dati molto ampi e sensibili (ad esempio quelli sanitari), l’UE potrebbe pretendere meccanismi di governance rafforzati, come un posto a nomina europea nei consigli di amministrazione delle entità che gestiscono cloud sovrani, poteri di veto su decisioni critiche e piani vincolanti di continuità operativa, fino a ipotesi di commissariamento o nazionalizzazione delle infrastrutture in caso di emergenza sistemica.

Con Trump alla Casa Bianca, opzioni di questo tipo non sono più teoriche, ma parte di una riflessione necessaria sulla sicurezza delle capacità digitali strategiche europee.

LA REALTÀ DELLA TECNOLOGIA EUROPEA E LE LEZIONI DALLA CINA

La questione europea deve confrontarsi con scenari globali in cui altri grandi attori perseguono realmente una sovranità tecnologica di sistema. La Cina, ad esempio, sta lavorando per ridurre la propria dipendenza da Android e Windows e sta investendo nello sviluppo di sistemi operativi domestici e tecnologie di semiconduttori per superare l’attuale dipendenza da forniture straniere. Certamente è un esempio di come una strategia di sovranità tecnologica sia perseguita in modo coerente, con piani di lungo periodo e investimenti strutturali, non come slogan politico. Ma dall’altra parte c’è da fare i conti col fatto che la Cina ha un mercato captive di oltre 1 miliardo di persone e un enorme ruolo della politica – non certo democratico – nell’orientare le scelte delle aziende.

Nel contesto cinese, il tema della dipendenza si estende anche ai chip: molte delle infrastrutture di calcolo ad alte prestazioni – dai data center ai supercomputer fino alle cosiddette “AI factory” – sono ancora basate su chip prodotti da Nvidia e altre aziende statunitensi. Anche qui emerge un paradosso: gli annunci entusiastici di nuove capacità di calcolo o di intelligenza artificiale spesso dipendono da tecnologie che, formalmente, si vorrebbero superare. Il che suggerisce che la sola riduzione nominale delle tecnologie estere non basta a garantire autonomia, se non è accompagnata dallo sviluppo di alternative competitive a livello mondiale.

LA DIPENDENZA UE DALL’HARDWARE E LA LIMITAZIONE DEL DISCORSO CLOUD ACT

E proprio su questo punto va fatto un chiarimento fondamentale che spesso manca nel dibattito italiano ed europeo: se il CLOUD Act è considerato un problema per i provider tecnologici statunitensi, allora è ugualmente un problema per qualsiasi provider europeo, perché tutti utilizzano tecnologie di base americane: chip, software di base, framework di virtualizzazione e strumenti di gestione dati. È curioso leggere annunci trionfalistici di supercomputer o “AI factory” costruite in Europa quando sotto il cofano quei sistemi girano su chip e stack software prodotti negli Stati Uniti o in paesi terzi. Questo dimostra che la sovranità tecnologica non è una questione di nazionalità del provider, ma di capacità di innovare e di controllare la catena del valore fino ai suoi elementi più elementari.

LA REALTÀ DELLA TECNOLOGIA EUROPEA

Come ha spiegato più volte Alessandro Aresu anche su questo sito, la sovranità non è una questione di etichette, ma di capacità tecnologica. Senza uno stack europeo competitivo – software, cloud, semiconduttori – parlare di autonomia significa restare nella retorica. Non basta avere data center sul territorio europeo se la tecnologia sottostante è progettata altrove.

Il caso Airbus conferma questa diagnosi: l’azienda cerca una soluzione europea, ma non è certa di trovarla. E se anche la trovasse, il rischio sarebbe quello di utilizzare tecnologie meno avanzate, rallentando l’innovazione industriale in nome di una sovranità formale buona solo per il discorso politico (francese). È il paradosso europeo: difendere l’autonomia rischiando di perdere competitività.

UN’ALTERNATIVA PRAGMATICA ESISTE

Esistono già esperienze europee più realistiche, come i modelli di cloud sovrano costruiti e governati in Europa, con strutture di controllo, audit indipendenti e separazione giuridica. Su questi modelli si potrebbe intervenire rafforzando ulteriormente la governance, per esempio prevedendo un ruolo istituzionale europeo nei consigli di amministrazione, diritti di veto su decisioni critiche o persino piani chiari di intervento pubblico in caso di crisi sistemica.

Ma soprattutto, i governi europei dovrebbero lavorare per avere più infrastruttura cloud (e sì, servirà l’energia nucleare), non meno, e per usarla di più. Il problema oggi non è chi costruisce il cloud, ma che non lo si utilizza abbastanza per far crescere economia e servizi pubblici.

AIRBUS COME SINTOMO

Il bando Airbus vale 50 milioni di euro: una cifra modesta per un gruppo di queste dimensioni. Il suo peso è politico e simbolico, non trasformativo. Airbus non sta risolvendo il problema della sovranità digitale europea; lo sta semplicemente rendendo visibile.

La vera scelta davanti all’Europa non è tra cloud americano e cloud europeo “puro”. È tra usare il cloud per crescere o rinunciare a usarlo pienamente, accettando una progressiva perdita di competitività. Ed è qui che la lezione di Draghi e ad esempio l’analisi di Aresu si incontrano: senza tecnologia e senza uso della tecnologia, la sovranità resta un’illusione rassicurante.

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