Skip to content

internazionalismo

Il leaderismo ha sconfitto l’internazionalismo: evviva?

Le mediazioni delle crisi internazionali sono affidate, ormai, soprattutto a singoli leader o a gruppetti sparsi e differenziati. L'intervento di Battista Falconi.

Possiamo dire sul G7 solo alcune cose molto semplici, da osservatori esterni e remoti. La prima è che Giorgia Meloni sembra continuare a esercitare la propria leadership quasi privata più che personale, basata sulla sua simpatia (tale per chi la ritiene tale, ovviamente), sulla sua capacità di intrattenere relazioni dirette con gli altri leader. Vedi – paraverbale, prossemica e mimica del Presidente italiano sono notoriamente eloquentissimi – come si posiziona accanto a Donald Trump sul divanetto e gli occhi quasi rassegnatamente rivolti al cielo mentre parla con Emmanuel Macron, che tanto hanno incuriosito fotografi e commentatori: “Non mi ricordo cosa dicessimo” ha risposto divertita Giorgia a chi glielo chiedeva, nel punto stampa finale del vertice. La rilevanza o marginalità italiana si gioca ancora soprattutto su questa capacità della nostra Premier, sulla sua carica umana.

Ma questa notazione di costume fa il paio con una questione sostanziale assai più rilevante e deprimente: in generale, le mediazioni stanno sempre più mostrando la corda, in particolare quelle affidate alle organizzazioni internazionali. Trump che lascia anzitempo il G7 forse intende fare un piccolo sgarbo al padrone di casa nonché suo vicino di casa canadese, con il quale intrattiene pessimi rapporti, ma soprattutto vuole significare agli altri sei astanti che questa formula, priva di una connotazione giuridica chiara e sorta per statuire la superiorità di alcune nazioni nel mondo, è ormai vetusta, obsoleta.

D’altronde sono nati e si sono allargati e potenziati i Brics, a rammentarci come il baricentro del pianeta e del suo sviluppo si sia trasferito in lande ben distanti e differenti dal West che dovremmo provare a fare di nuovo grande. A portare il presidente statunitense a questo ostentato atto di snobismo, però, non è soltanto un problema di peso geopolitico, è una profonda diffidenza verso l’internazionalità istituzionale in genere, lo confermano la già paventata diserzione del prossimo G20 e la sua reiteratamente dichiarata posizione verso ONU, OMS e agenzie collaterali e derivate. Definiamola fortemente critica, per essere soft.

Le mediazioni delle crisi internazionali sono ormai affidate soprattutto a singoli leader o a gruppetti sparsi e differenziati. Ci provano il Vaticano, la Turchia, i Paesi del Golfo… Persino la Russia, che vorrebbe giocare in un tavolo la parte del contendente e in un altro il ruolo del pacificatore. Un combo davvero curioso.

Non sorprende che in questo frangente caotico le tensioni passino rapidamente dallo stato potenziale a quello cinetico, che gli scambi di missili, droni, razzi e bombe si intensifichino, che la minaccia nucleare appaia tanto concreta da indurre un po’ tutti alla considerazione che, se si toglie di mezzo il rischio di un’atomica iraniana, il mondo sarà in effetti un po’ meno preoccupante. Il commento ricorrente che l’Occidente e i grandi o ex tali stiano facendo fare a Israele il lavoro sporco è, insomma, cinico ma verosimile.

Nel frattempo Jean-Claude Trichet, ex presidente della Bce, sostiene che i dazi sono un bluff e che la globalizzazione, in questo caso dei mercati più che della politica, sarebbe ancora viva e vegeta. Bisognerà vedere quanto merci e valute potranno continuare a circolare nel momento in cui la spinta dell’internazionalismo è così svalutata. Peraltro, la crisi del dollaro e la sua sostituzione con altre valute è un ulteriore elemento di non marginale confusione che andrà tenuto in conto.

Torna su