Lo storico tonfo in territorio negativo dei Futures WTI della scorsa settimana contiene una lezione che l’analista Julian Lee ha messo nero su bianco ieri su un editoriale di Bloomberg News: c’è troppo petrolio in giro per il mondo.
È a questo fattore, e non – come si è sottolineato da più parti nelle ore concitate in cui i Futures sono stati sull’ottovolante – all’esaurita capacità di stoccaggio nel territorio americano, che bisogna guardare per capire le radici di questa crisi senza precedenti del settore.
Si tratta, se possiamo metterla così, della vecchia storia del saggio che indica la luna e dello stolto che guarda il dito.
Qualcosa più, insomma, di una questione di prospettiva suggerisce che il crollo verticale dei prezzi del petrolio vada ascritto ad un’abbondanza di materia prima che non può che riverberarsi, ma solo in seconda battuta, sulle limitate capacità di stoccaggio di Paesi che di tutto quell’oro nero in questo momento non sanno proprio che farsene.
Per dirla con le parole di Lee, i prezzi in territorio negativo sono il più chiaro segnale che i mercati potevano fornire ai produttori per dir loro di smetterla di pompare petrolio dai loro pozzi.
L’analista, a tal proposito, ricorda che l’accordo sui tagli raggiunto a Riad il 12 aprile dai membri del resuscitato cartello OPEC+ – lo stesso su cui Donald Trump appuntò le proprie speranze prima di essere costretto dal tonfo dei Futures a varare aiuti di Stato per l’industria dell’Oil & Gas – deve ancora essere implementato da un buon numero dei suoi sottoscrittori.
Tra questi ultimi, peraltro, ci sono i due colossi petroliferi Arabia Saudita e Russia, che difficilmente – osserva Lee – faranno qualcosa prima che l’accordo entri ufficialmente in vigore il 1 maggio.
Nel frattempo, le petroliere continueranno a fare vela in direzione di acquirenti che non sanno più dove metterlo. Entro giugno, ad esempio, ben 51 milioni di barili provenienti da Arabia Saudita e Iraq faranno il loro arrivo negli States.
Arriveranno però in un paese che sta continuando malgrado tutto a pompare petrolio, sia pur con una riduzione non però consistente come la situazione richiederebbe:
fig. 1: Produzione petrolio negli Usa in bpd su base settimanale e mensile, 0ttobre 2019/aprile 2020 (fonte: Bloomberg su dati EIA)
E il problema non è solo ristretto ai confini degli Usa. Anche altri Paesi stanno cominciando a fare i conti con le sempre più striminzite capacità di stoccaggio e con i loro riflessi su titoli apparentemente solidi come il North Sea Brent.
Alcuni in verità stanno esplorando soluzioni creative: in alcuni paesi d’Europa ad esempio stanno ricorrendo alle chiatte, mentre la compagnia statale Naftogaz Ukrainy sta valutando di stoccare il proprio petrolio in una pipeline sottoutilizzata dove potrebbero trovare riparo fino a 35 milioni di barili.
Sono, direbbe qualcuno, pezze peggiori del buco. L’unica via d’uscita all’incubo dei prezzi negativi resta dunque quella indicata da Lee: tagli ancora più drastici alla produzione.
D’altronde, come diceva quel commediografo partenopeo che ci ha lasciato quattro decenni prima dell’emergenza Covid-19, “Adda passà ‘a nuttata”.