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Cina

Vi spiego chi vincerà e chi perderà nella guerra fra dollaro, euro e renmimbi

L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta La crisi del 2008 è stata recuperata, ma niente è tornato come prima: nel frattempo, nuovi equilibri geopolitici si sono consolidati. E sono pie illusioni, quindi, quelle di coloro secondo cui la Brexit è revocabile con un nuovo referendum, i populismi dilaganti sono solo fenomeni neofascisti, la fine della Storia…

La crisi del 2008 è stata recuperata, ma niente è tornato come prima: nel frattempo, nuovi equilibri geopolitici si sono consolidati. E sono pie illusioni, quindi, quelle di coloro secondo cui la Brexit è revocabile con un nuovo referendum, i populismi dilaganti sono solo fenomeni neofascisti, la fine della Storia è un paradigma invariabile.
Se ne è accorta anche una delle più prestigiose riviste di politica internazionale, Foreign Affairs, che ha dedicato il numero di febbraio alla nuova geopolitica finanziaria, titolando “A New Financial Geopolitics – The U.S. Led Monetary Order in a Time of Turbolence” (Una nuova geopolitica finanziaria – L’ordine monetario guidato dagli Stati Uniti in un periodo di turbolenza).

E’ un numero denso, che spazia dalla situazione interna americana alla crisi dell’euro, ed alla possibilità che l’area della moneta unica si divida anche per via della riluttante egemonia tedesca; che affronta il processo di internazionalizzazione del remninbi, che dovrebbe prendere ad esempio lo yen, concludendo con la domanda cruciale: “Ma davvero Pechino vuole sfidare il dollaro?”.

Il punto di partenza delle analisi, per quanto possa sembrare insolito, rimette in discussione uno delle basilari acquisizioni delle economie occidentali degli ultimi decenni: la indipendenza dalla politica della guida monetaria, affidata alle tecnocrazie delle Banche centrali. Acquisita a partire dagli anni Ottanta come strumento volto a contrastare l’inflazione determinata dall’eccesso di spesa pubblica da parte dei governi, nello scorso decennio ha assunto un’ampiezza ed una rilevanza inusitati. L’uscita dalla crisi, detonata nel 2008 negli Usa e poi in Europa a partire dal 2010, è stata governata dalle banche centrali, che hanno assunto un potere assoluto: assumendo scelte politiche che mai era stato ipotizzato di conferire loro. Una cosa, infatti, è il controllo della inflazione, per evitare che la spesa pubblica finanziata in disavanzo eroda il potere di acquisto del risparmio, altro è la dominanza enza contrappesi o controlli nel decidere come uscire dalla più grave crisi finanziaria globale dopo quella del ’29. Questo eccezionalismo, il potere attribuito in via esclusiva alle tecnocrazie delle Banche centrali nel governo della moneta, ha alimentato un inedito populismo, che viene pericolosamente confuso con la tendenza al fascismo ed al nazismo dilagati a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento, confondendo i due fenomeni. Allora, infatti, agì come limite al potere politico un altro feticcio: il legame delle monete rispetto alla parità aurea, che condizionò tutte le scelte economiche. Da quella britannica, volutamente recessiva, per cercava di ovviare alla svalutazione subita dalla sterlina nei confronti del dollaro rispetto all’anteguerra, a quella italiana che di conserva puntò a ritornare alla Quota novanta comprimendo selvaggiamente i salari. La Germania, che aveva appena effettuato il cambio della moneta ancorandola finalmente all’oro, pagò il prezzo sociale più alto in termini di politiche economiche deflattive, adottate del Cancelliere Heinrich Brüning: i disoccupati a milioni, che determinarono, furono il carburante per la ascesa inarrestabile del NDP. Il feticcio aureo, allora, condizionò tutto: anche la politica statunitense, che fu al contrario eccessivamente espansiva al fine di evitare una stretta eccessiva da parte inglese, fino a creare le condizioni per la bolla finanziaria che esplose nel ’29.

Così come il feticcio aureo condizionò a lungo le politiche economiche dei governi dopo la crisi del ’29, sino all’abbandono del vincolo alla parità da parte della sterlina nel ’31 e poi dal dollaro nel ’33, che restituì piena agibilità alle politiche economiche espansive da parte dei rispettivi governi, così l’incondizionato potere sulla moneta, che era stato attribuito sul finire del Novecento alle Banche centrali al solo fine di controllare l’inflazione, ha alimentato in Occidente la sfiducia nella politica tradizionale ed il dilagare del populismo. Il vincolo quantitativo rispetto all’andamento del deficit e del debito pubblico ha assunto, in questo dopo-crisi, la medesima forza costrittiva che ebbe la parità aurea dopo la crisi del ’29. Così come allora, quando fu il ritorno alla parità aurea dell’anteguerra a giustificare tutte le politiche deflattive dei governi, stavolta è stato l’obiettivo al pareggio di bilancio ed ritorno al precedente rapporto debito pubblico/pil a rappresentare il vincolo politico assoluto. E, per sovrappiù, la politica monetaria accomodante è stata utilizzata da parte delle Banche centrali come un’esca, una condizione favorevole offerta ai governi per facilitare l’accettazione sociale delle politiche restrittive di bilancio. Questo argomento storico, seppur complesso, non viene affrontato da Foreign Affairs, che si limita a rilevare il fenomeno del populismo crescente. Il punto cruciale, oggi come allora, risiede nella limitata legittimazione della politica e nei limiti correlativi entro cui essa può agire: rispettando la parità aurea in un caso, ed oggi l’indipendenza delle Banche centrali che invece hanno un potere incontrollato nella creazione di moneta e nella distribuzione della ricchezza tra economia reale e finanza. Il ritorno alla precedente parità con l’oro, così come quello ai precedenti rapporti deficit/pil e debito pubblico/pil sono analoghi feticci, che vincolano il potere politico. Di qui, il populismo che ad essi si ribella: è ingenuo pensare che il problema del debito pubblico italiano formatosi dopo la crisi del 2008 possa essere ormai affrontato solo con avanzi primari, tasse e tagli alle spese. E’ un problema politico, non di bilanci in ordine, che può essere affrontato solo se la politica monetaria esce dalla finzione della indipendenza burocratica della Bce.
Per il resto, i diversi saggi ospitati dalla Rivista sono ampiamente condivisibili, in quanto esaminano non tanto le ragioni del conflitto attuale o potenziale tra le diverse aree monetarie, quanto le faglie interne all’interno di ciascuna di esse. Sono queste le linee di frattura che possono determinare una nuova crisi globale, come per il caso dell’euro, ovvero minarne lo sviluppo prospettico, nel caso del remninbi.

Per quanto riguarda l’euro, si considerano in modo problematico due aspetti: il suo declino prospettico come moneta globale rivale del dollaro; e la possibilità che la Germania rinunci al suo ruolo egemone, sempre più riluttante, per il peso che questo comporta. Sono argomenti noti, già ampiamente discussi, ma insondabili nelle prospettive a breve. Saranno eventi dirompenti come una Hard Brexit, e gli equilibri complessivi, commerciali, finanziari e dunque geopolitici che ne conseguiranno, a pesare in modo determinante. D’altra parte, la ipotesi di una divisione in due dell’Eurozona non sarebbe altro che la conseguenza della gestione politica e monetaria concreta di questi anni di crisi, che hanno affondato i principi di solidarietà fondanti dell’Unione, polarizzando ricchezza e povertà, esasperando le già profonde differenze tra le economie del nord e quelle del sud dell’Europa. L’euro riflette, e rifletterà sempre di più, le dinamiche interne all’Unione: più che una moneta globale, rimane una moneta regionale di peso globale, in grado di scatenare crisi incontrollabili. E’ importante, purtroppo, soprattutto per questa potenzialità distruttiva.

Se il dollaro non deve temere, nel breve, alcun serio concorrente, c’è invece la prospettiva dell’internazionalizzazione del renmimbi. Anche stavolta, ci sono due aspetti da considerare, assai diversi: uno è tecnico, l’altro politico. Per un verso, infatti, la moneta cinese potrebbe seguire il percorso che fu dello yen, diventando una moneta ampiamente apprezzata ed usata sia commercialmente che finanziariamente a livello globale senza mai assurgere ad un ruolo competitivo rispetto al dollaro. Per l’altro, c’è la dinamica geopolitica: portare la sfida al dollaro è una prospettiva plausibile, ma non prevedibile.

Il secolo americano iniziò, sì, con la prima Guerra mondiale, ma si fondava sulla profonda spossatezza britannica, incapace di competere economicamente a livello globale se non sfruttando il suo impero coloniale. Commercialmente e finanziariamente, aveva perso terreno sia rispetto agli Usa che alla Germania: fu la sconfitta militare di quest’ultima a consacrare la centralità del dollaro e la fine di quella della sterlina. La seconda Guerra, non fece che ribadire le tendenze in atto, con la fine dell’Impero britannico e la divisione della Germania.

Siamo di fronte ad un nuovo processo di ribilanciamento globale, che vede gli Usa in difficoltà sin dal ’71: il suo smisurato impero di multinazionali non ne alimenta la ricchezza, limitandosi a consumarne il potenziale politico e militare. L’Europa si sbriciola senza rumore, la Cina continua la sua lunga marcia.
E’ la Storia: le monete sono solo lo specchio del potere.

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