Tra perdita di privilegi nell’export e la paura di rimanere isolati, la Brexit rischia di far fuggire dal Regno Unito un pezzo della sua industria. Con conseguente perdita del primato Fintech. Ed è già caccia alle startup in fuga
Qualcosa si sta inceppando nell’Eden del Fintech inglese. Qualcosa che sa di lenta ma inesorabile fuga, magari verso nuovi lidi dalla bassa tassazione, come Irlanda e Svezia. La Brexit rischia di giocare un brutto scherzo all’industria della tecnofinanza made in England. Troppa l’incertezza sui costi del divorzio con l’Ue e sulle ripercussioni verso chi esporta tecnologia nel Vecchio continente. E così, mentre gli Stati Uniti avanzano (qui l’approfondimento di Start Mag), il Regno Unito ancora oggi patria del Fintech rischia seriamente di perdere peso specifico nella corsa all’innovazione mondiale. Perchè?
Il regno del Fintech

Primato inglese
Lo dicono i numeri. Le startup che risultano attive nel Regno Unito nel 2016 sono 274 mila, per un fatturato di 207 miliardi di euro (sugli 800 nel mondo) e investimenti tra i 6 e gli 8,2 miliardi di euro. Non solo. Sono stati 12 i miliardi di dollari investiti in questo campo nell’ultimo anno, secondo quanto riportato in uno studio elaborato da Innovate Finance (ente no profit nato in Gran Bretagna e prima associazione nazionale della tecnofinanza). Il Fintech britannico ad oggi conta 20 miliardi di sterline di ricavi annui e dà lavoro a circa 135 mila persone.
Dio salvi il Fintech

Una questione di regole
Incertezza a parte, c’è un aspetto molto meno psicologico e più pratico che rischia di far scattare il classico tana libera tutti. Si tratta della questione del passpoarting, di vitale importanza per le startup del Fintech. Questa particolare normativa, prerogativa di chi risiede legalmente dentro l’Ue, consente a una qualsiasi azienda dell’Unione europea di offrire i servizi in tutta l’Unione, senza bisogno di ottenere ulteriori autorizzazioni dagli organismi di vigilanza dei paesi in cui opera o si insedia. Ma dal momento in cui la Gran Bretagna non farà più parte dell’Ue però anche questo diritto decadrà. E allora bisognerà pagare per esportare le proprie innovazioni.
Il caso Transferwise
Qualcuno ha già rotto gli indugi, dichiarando la propria intenzione di abbandonare la Gran Bretagna prima che sia troppo tardi. E’ il caso di Transferwise, big del moneytransfer. Recentemente il ceo Taavet Hinrikus ha dichiarato di voler cercare un’altra sede per la propria sede legale. A causa della Brexit “c’è un sacco di incertezza e l’incertezza non aiuta il business. Così, per l’avvio di una nuova società Fintech, Londra non va più bene”, ha spiegato. Nei prossimi anni dunque, bisognerà focalizzare le proprie attività Fintech su altre realtà metropolitane. “Credo che con la Brexit sia finita l’era del passporting, ovvero della libertà di circolazione di servizi, inclusi quelli tecnologici. Per questo penso che bisognerà necessariamente guardare a realtà come Berlino o Amsterdam”.
Un business da intercettare
Alla fine di tutto però, bisogna porsi una domanda. Ma se il Fintech inglese rischia seriamente di emigrare, chi può beneficiare di tale opportunità, ovvero intercettare le startup
Fornitore non ti conosco
Dimenticando il Fintech, secondo una recente indagine del Chartered Institute of Procurement and Supply (Cips), effettuata tra oltre duemila responsabili della gestione della catena di distribuzione, quasi metà delle imprese europee ha iniziato a cercare alternative ai fornitori britannici, in previsione dell’introduzione di tariffe dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il 46% dei manager europei che lavorano con fornitori britannici ne sta cercando di nuovi nell’Europa continentale.






