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L’Australia punta sul Giappone per le sue future fregate

Canberra ha deciso che il progetto vincitore è quello presentato dai cantieri nipponici Mitsubishi Heavy Industries (MHI) e noto come “Mogami upgraded”: le fregate deriveranno infatti da quelle della classe Mogami, attualmente in fase di ingresso in servizio nella Marina giapponese. L'articolo di Giovanni Martinelli

Quando il 5 agosto è arrivato l’annuncio ufficiale da parte del Ministro della Difesa australiano, alla fine nessuno è stato colto di sorpresa; da giorni infatti si susseguivano le voci in proposito, puntualmente confermate per l’appunto dall’annuncio in questione. L’Australia ha dunque scelto il Giappone per sviluppare il programma relativo alle proprie future fregate.

Per essere più precisi, Canberra ha deciso che il progetto vincitore è quello presentato dai cantieri Nipponici Mitsubishi Heavy Industries (MHI) e noto come “Mogami upgraded”; un nome che trae origine dal fatto che queste fregate sono derivate da quelle della classe Mogami, attualmente in fase di ingresso in servizio nella Marina Giapponese.

L’ESIGENZA DI NUOVE FREGATE

Prima di entrare nel dettaglio della scelta da un punto di vista tecnico, alcune considerazioni di carattere generale. La prima riguarda la genesi di questo programma, nato in seguito alla elaborazione di una “Surface Fleet Review” pubblicata nel febbraio del 2024; in essa si sancisce il sostanziale fallimento di un altro programma per altre fregate, quelle della classe Hunter. Oggetto di una scelta effettuata appena pochi prima e basato sulle Type 26 di concezione Britannica, questo diventa presto oggetto di gravi problemi legati alla scelta Australiana di modificarlo profondamente.

Alla luce dunque di tali difficoltà, Canberra decide di ridurne la sua consistenza finale (da 9 a 6 unità) salvo riconoscere al tempo stesso l’esigenza di disporre di un numero maggiore di piattaforme; da qui l’emissione di un requisito per 11 nuove fregate, meno complesse/sofisticate delle Hunter (quindi, meno costose) ma pur sempre dotate di importanti capacità operative. Altro dato importante, la volontà di selezionare un progetto esistente da non modificare in maniera estesa, con le prime 3 unità da costruire direttamente nel “Paese vincitore”; una doppia mossa mirata a velocizzare al massimo lo sviluppo.

Con la scelta appena effettuata, Canberra potrà così entrare ora in una fase di trattativa diretta con MHI e il Governo Giapponese. L’obiettivo è di chiudere nel corso del prossimo anno, in modo da avere la prima unità in Australia nel 2029 e operativa l’anno successivo. A queste prime 3 unità realizzate a Nagasaki ne seguiranno poi altrettante che saranno costruite a Henderson presso i cantieri Austal Defence Shipbuilding. Questi realizzeranno infine anche le ultime 5 navi, che potrebbero anche vedere l’introduzione di alcune modiche sulla base delle esperienze maturate con le prime.

Dunque, fatta salva l’esigenza di procedere il più velocemente possibile con il programma “SEA 3000” (questo il suo nome a oggi), l’Australia punta naturalmente a coinvolgere comunque anche l’industria locale per ottenere il massimo ritorno economico possibile nell’ambito di un progetto che a oggi è stimato valga qualcosa come 10 miliardi di dollari Australiani.

LA PIATTAFORMA

Inanzitutto, una premessa; per quanto le “Mogami upgraded” (o 06FFM) siano già state scelte dalla Marina Giapponese (che ne richiede 12, tante quante quelle “originali”), molti elementi di dettaglio non sono ancora esattamente noti. Anche se sulla base delle informazioni già disponibili è comunque possibile tracciare un identikit decisamente affidabile.

Per quanto riguarda le dimensioni, queste unità raggiungeranno i 142 metri di lunghezza e i 17 di larghezza; con un dislocamento di oltre 6.000 tonnellate a pieno carico. Tutti valori in crescita rispetto alle prime Mogami e che dunque restituiscono l’immagine di una fregata dimensionalmente importante. Ciò che non cambia invece è l’impianto propulsivo, basato su 2 diesel utilizzati per le andature di crociera, ai quali si aggiunge una turbina a gas per gli spunti di velocità. Ne risulta un quadro in termini prestazioni che indica in oltre 30 nodi la velocità massima mentre da parte Australiana si enfatizza il valore dell’autonomia, indicata in circa 10.000 miglia (ovviamente ad andature più basse).

Tra i fattori che poi hanno pesato nella scelta di Canberra il fatto che queste fregate (per effetto dell’elevato livello di automazione) abbiano un equipaggio di soli 90 uomini circa; elemento che contribuisce a contenere i costi operativi. Altro aspetto vincente, una “service life” stimata in 40 anni; dunque, una vita attesa della piattaforma piuttosto lunga, garanzia anche di possibili  aggiornamenti futuri. Infine, il fatto che le Mogami nascano con la capacità di integrare droni navali (di superficie e subacquei), assicurando un potenziale ampliamento delle missioni svolte. Tutti fattori che hanno fatto la differenza rispetto all’altra proposta finalista e cioè la fregata del tipo MEKO A-200 di Thyssen Marine Krupp System.

LE CAPACITÀ OPERATIVE

Questo è l’ambito che, complessivamente, avrà bisogno di maggiori chiarimenti; sia perché è ancora poco dettagliato per le stesse 06FFM, sia perché è un aspetto che (potenzialmente) potrebbe vedere proprio delle modifiche da parte Australiana. Procedendo con ordine, si può ipotizzare che il cosiddetto “sistema di gestione del combattimento” (il “cervello” di ogni nave militare) rimanga lo stesso delle Mogami e cioè l’OYQ-1.

Ciò che invece potrebbe cambiare è il radar principale; non più l’OPY-2 ma comunque un apparato multifunzione che conserverà la configurazione a facce fisse del tipo a scansione elettronica attiva. Immutato dovrebbe essere (ma il condizionale è d’obbligo) anche il caratteristico “albero integrato” delle Mogami, noto come “Unicorn”, che al proprio interno ospita diverse antenne e apparati che fanno riferimento a sistemi di comunicazione, di guerra elettronica e di scambio di dati tattici.

È a notare che la presenza distintiva di questo particolare albero si inserisce in un lavoro accurato sulle forme esterne di queste fregate, finalizzato alla riduzione della segnatura radar.

Probabile anche la conferma della suite sonar originale, basata su un sensore multifunzione a scafo e su uno di tipo rimorchiato. Il tutto, a dimostrazione di capacità di scoperta aerea nonché sopra e sotto la superficie del mare pressoché complete; integrate, all’occorrenza, dai “droni” imbarcati.

Sul fronte dei sistemi d’arma, la novità più rilevante è rappresentata dal raddoppio delle celle di lancio verticali; dalle 16 (del tipo Mk. 41) presenti sulle Mogami, alle 32 sulla versione aggiornata e, quindi, anche sulle fregate Australiane. Qui emerge un primo punto interrogativo, dato che a logica si dovrà procedere all’integrazione di missili diversi per le navi delle 2 Marine in questione. Discorso analogo peraltro per missili antinave e i siluri; anche in questi ambiti appare improbabile che la Marina Australiana adotti gli stessi armamenti utilizzati da quella Giapponese.

Nessun problema invece per il pezzo di artiglieria principale e cioè il 127/62 mm (già in uso per Canberra) e, probabilmente, per il sistema missilistico per la difesa di punto SeaRAM (che potrebbe invece fare il suo debutto in Australia). Anche per l’elicottero imbarcato nessuna difficoltà, dato che sarà sempre un MH-60.

MA CI SONO DEI RISCHI

Se da una parte questo accordo può dunque essere definito come “storico”, al tempo stesso non si possono nascondere rischi e perplessità. Un accordo storico sopratutto per il Giappone, che segna infatti il suo più grosso contratto per l’export militare dal dopoguerra a oggi. E qui nasce il primo dubbio; riuscirà Tokyo a gestire un contratto così importante in tutti i suoi aspetti, in assenza di esperienza in proposito?

Il secondo tema si concentra sui tempi; come ricordato, la Marina Australiana richiede consegne veloci a MHI per le prime 3 unità. Aspetto questo che potrebbe andare a confliggere con le analoghe richieste di quella Giapponese che, a propria volta, ha fissato una tabella di marcia piuttosto “aggressiva” per la costruzione delle proprie 12 fregate. E già che si parla di aspetti costruttivi, un’altra incognita è rappresentata dal futuro passaggio di responsabilità ai cantieri Australiani comunque rischioso alla luce di prestazioni negative da parte di questi ultimi in molti progetti recenti.

Infine, le questioni più tecniche; già sommariamente anticipate. Qui la vera sfida è rappresentata dal fatto che la Marina australiana adotterà unità quasi del tutto “estranee” alla propria flotta, con una grande quantità cioè di sistemi diversi da quelli già in uso. Questo potrebbe determinare difficoltà sul piano logistico, sul fronte dei costi (si pensi all’integrazione di armamenti diversi) e, perfino, di interoperabilità tra le proprie diverse unità. Al punto che alla fine si è perfino portati a pensare che nella scelta di Canberra a pesare siano stati quasi più fattori “politici”; costruire cioè attraverso questo contratto rapporti ancora più stretti con un alleato importante come il Giappone. Ovviamente, in chiave anti-cinese.

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