La data che ha fatto da spartiacque la conoscono tutti, anche chi non ha un’auto di proprietà: 18 settembre del 2015. Quel giorno scoppiò lo scandalo dieselgate di VW, capace di travolgere simultaneamente la principale industria della Germania nonché la cosiddetta “locomotiva d’Europa”.
Nonostante gli sforzi fatti dalla casa di Wolfsburg, tra le europee non a caso più convinte ad abbracciare la motorizzazione elettrica, almeno fino all’arrivo del nuovo Ceo, quella parola le rimane ancora oggi incollata addosso, sebbene siano state numerose le Case, a ogni latitudine, dal Giappone (lo scandalo Hino è stato altrettanto grave eppure non ha avuto la medesima eco mediatica) agli Usa, ad avere posto in essere condotte simili, se non persino più gravi.
COM’È NATO IL DIESELGATE
Tutto nacque proprio negli Usa (c’è chi disse che da tempo stessero cercando un modo per attaccare Berlino, che nello stesso periodo stava ampliando i suoi rapporti con Mosca col NordStream2), dove l’Environmental Protection Agency aveva riscontrato che Volkswagen aveva installato illegalmente un software nella centralina, programmato per aggirare le norme ambientali sulle emissioni di NOx (ossidi di azoto) delle proprie vetture a gasolio, all’epoca conformi alla normativa Euro 5. Il software era programmato per rilevare quando la vettura fosse sottoposta a test, azionando una riduzione delle prestazioni e delle relative emissioni, così da superare gli esami di conformità. Era scoppiato il dieselgate.
IN GERMANIA VITTORIA PER GLI AMBIENTALISTI CONTRO VW
Sono passati quasi 8 anni, eppure si parla ancora di dieselgate. Nemmeno il mese scorso, in Germania, dove tutto ha avuto inizio, il tribunale amministrativo dello Schleswig-Holstein si è pronunciato a favore dell’organizzazione ambientalista Deutsche Umwelthilfe (Duh), dichiarando “illegale” l’aggiornamento del software eseguito dalla Volkswagen dopo l’esplosione dello scandalo, ribaltando un precedente verdetto contrario del 2017 che diede contro alle istanze degli ambientalisti.
La Duh, agguerrita come non mai dopo questa sentenza inattesa, ha già detto che non si fermerà qui e, forte del ‘precedente’, intende avviare nuove cause contro la Kraftfahrtbundesamt (Kba, l’autorità di vigilanza dei trasporti, omologa della nostra motorizzazione civile) contestando analoghe autorizzazioni concesse alla Mercedes e alla BMW. In caso di successo, i tre costruttori tedeschi rischiano di dover avviare il richiamo di almeno dieci milioni di veicoli.
LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CONTRO MERCEDES
Una grana non di poco conto per l’industria automobilistica tedesca che, col passaggio in giudicato, determinerebbe nuovi danni economici. E non è la sola pervenuta da un’aula di tribunale. Nelle ultime ore, difatti, la Corte di Giustizia dell’Unione europea pronunciandosi su un ricorso ricorso per risarcimento danni promosso da un cittadino nei confronti della Mercedes-Benz Group ha statuito che l’acquirente di un veicolo a motore dotato di un impianto di manipolazione illecito beneficia di un diritto al risarcimento da parte del costruttore dell’automobile qualora l’impianto abbia causato un danno all’acquirente.
“Oltre agli interessi generali, il diritto dell’Unione tutela anche gli interessi particolari del singolo acquirente di un veicolo a motore nei confronti del costruttore qualora tale veicolo sia dotato di un impianto di manipolazione vietato”, sostengono i giudici nella sentenza che rischia di costare parecchio ai costruttori tedeschi. La Corte ha concluso che la direttiva quadro stabilisce un collegamento diretto tra il costruttore di automobili e il singolo acquirente di un veicolo a motore volto a garantire a quest’ultimo che il veicolo sia conforme alla normativa pertinente dell’Unione.
La Corte ritiene che le disposizioni della direttiva quadro, in combinato disposto con quelle del regolamento n. 715/2007, tutelino, oltre agli interessi generali, gli interessi particolari del singolo acquirente di un veicolo a motore nei confronti del costruttore qualora tale veicolo sia munito di un impianto di manipolazione vietato.
COSA POSSONO FARE GLI STATI MEMBRI
Gli Stati membri sono tenuti a prevedere che l’acquirente di un simile veicolo benefici di un diritto al risarcimento da parte del suo costruttore. In mancanza di disposizioni del diritto dell’Unione che disciplinino le modalità di risarcimento, spetta a ciascuno dei 27 determinarle.
E niente norme furbette per aggirare i diktat della Corte e proteggere la propria industria dell’automotive: la normativa nazionale non può rendere impossibile o eccessivamente difficile l’ottenimento di un adeguato risarcimento dei danni causati all’acquirente.