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Crollo ponte Morandi, perché Mion sparla?

Reazioni, commenti e analisi sulla sortita dell'ex top manager di Edizione (Benetton), Gianni Mion, come testimone nel processo sul crollo Ponte Morandi di Genova

 

Il 14 agosto del 2018 il crollo del Ponte Morandi (o viadotto Polcevera) ha causato la morte di 43 persone e costretto 566 persone ad abbandonare la propria abitazione. Oggi a processo ci sono 58 persone tra manager e tecnici di Autostrade, Spea e ministero delle Infrastrutture.

IL SILENZIO DI MION E IL CROLLO DEL PONTE MORANDI

La città di Genova, stretta tra il mare e la montagna, è da sempre in sofferenza di spazio. I suoi palazzi storici hanno spesso sacrificato i giardini con affaccio sul mare per costruire nuovi palazzi con spazi adibiti al commercio. Dell’assenza di spazio ha risentito anche la viabilità, da qui la necessità di costruire ponti, proprio come il Morandi, che sovrastavano edifici abitativi. L’intensa antropizzazione del territorio genovese, caratteristica che avrebbe richiesto ancora più attenzione e cura, ha reso il disastro del crollo del Ponte Morandi ancora più drammatica. E invece la cura è mancata anche quando i segnali di allerta erano evidenti. “Emerse che il ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo – ha detto l’ex manager del gruppo Benetton, Gianni Mion, sentito come testimone nel corso del processo per il crollo del ponte -. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo (ex direttore generale di Aspi oggi uno dei 58 imputati nel processo, ndr) rispose ‘ce la autocertifichiamo’. Non dissi nulla e mi preoccupai. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico”.

PONTE MORANDI: LA RIUNIONE IN CUI (FORSE) SI PARLÒ DI AUTOCERTIFICAZIONE

Gianni Mion, ex amministratore delegato della holding dei Benetton Edizione, ex consigliere di amministrazione di Autostrade per l’Italia (Aspi) e della sua ex controllante, Atlantia, ha ricordato il contenuto di una riunione del 2010, otto anni prima del crollo. A quella riunione parteciparono anche l’ad di Aspi Giovanni Castellucci, Gilberto Benetton, il collegio sindacale di Atlantia e, secondo i ricordi del manager, tecnici e dirigenti di Spea Engineering (controllata di Atlantia addetta al controllo delle infrastrutture). All’epoca della riunione Mion era a capo di “Edizione Holding”, la cassaforte della famiglia Benetton. “In una riunione mi parlarono di un difetto di progettazione. Creava delle perplessità sul fatto che il ponte potesse restare su – spiega Mion -. Ma tutti noi pensavano che i controlli li facessero i nostri tecnici di Spea, poi è venuto fuori dopo come facevano le indagini. Mica sapevamo allora tutto quello che è venuto fuori dopo”.

LE ACCUSE DEI PARENTI DELLE VITTIME DEL CROLLO DEL PONTE MORANDI

Dopo queste dichiarazioni i familiari delle vittime lo hanno accusato, addossando anche al suo silenzio la responsabilità della morte dei loro cari. “Hanno ragione – ha risposto Mion -. Ma cosa avrei dovuto fare, una battaglia interna?”.

DA TESTIMONE A INDAGATO

Da una mancata battaglia interna a una possibile battaglia giudiziaria. L’ex manager Gianni Mion oggi rischia di passare dal banco dei testimoni a quello degli imputati. A suggerirlo alcuni legali della difesa che hanno invitato il Tribunale a valutare se, alla luce delle dichiarazioni, lo stesso Mion dovesse essere considerato un indagato. Secondo il PM Mion non era stato indagato perché non ricopriva ruoli in ASPI, però il presidente si è riservato di valutare la questione.

IL PARALLELO CON IL PROCESSO RUBY TER

Sul tema è intervenuto sul Foglio Guido Stampanoni Bassi, avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza penale. “Il tema giuridico che si è posto è dunque quello relativo al potere, in capo all’autorità giudiziaria, di sindacare la veste con cui determinate dichiarazioni sono state rese – scrive l’avvocato Guido Stampanoni Bassi -. Sul giudice, infatti, ricade il potere-dovere di verificare se il soggetto chiamato a rendere dichiarazioni sia coinvolto o meno nei reati per cui si procede e se il giudice rileva che la veste più appropriata per il dichiarante sia quella di soggetto coinvolto nei fatti (anziché di testimone), questi deve essere considerato indagato a tutti gli effetti (con applicazione delle garanzie di cui si è detto)”. L’avvocato Guido Stampanoni Bassi affianca il caso di Mion a quello del processo Ruby-ter. Secondo le motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano se nei confronti di una persona sono emersi indizi di reità l’autorità giudiziaria non può trattarla come un testimone (ossia chi, con obbligo di verità, è chiamato a riferire ciò che è a sua conoscenza), dovendo, al contrario, riconoscerle una serie di garanzie, tra le quali la facoltà di non rispondere e il diritto al silenzio). Nel caso Ruby, nono-tante fossero emersi nei confronti del-e imputate plurimi indizi di reità b nel corso del quale Del resto, come hanno riconosciuto i giudici nel caso Ruby-ter, la mancata iscrizione del testimone quale indagato non preclude al giudice di valutare successivamente la sua sostanziale qualità di indagato al momento delle dichiarazioni.

E il quotidiano La Verità – in un articolo di Maurizio Tortorella – scrive: “La confessione del supertestimione mette a rischio il processo Morandi. Se dopo le esplosive dichiarazioni sul crollo del ponte l’ex ad della società Edizione, sarà indagato, le sue accuse non potranno più essere utilizzate dai pm. Si profila un cortocircuito come nel Ruby-ter”.

CROLLO PONTE MORANDI: LA DIFESA DICE CHE NON CI FU ALCUNA AUTOCERTIFICAZIONE

Intanto i legali della difesa, Giovanni Paolo Accinni, Guido Carlo Alleva, Roberta Boccadamo, Marcello D’Ascia, Alessandro Di Giovanni, Filippo Dinacci, Roberto Fiore, Carlo Marchiolo, Riccardo Olivo, Giorgio Perroni, Nicola Santi, Luca Sirotti e Francesco Tagliaferri, respingono al mittente le accuse mosse da Gianni Mion. “Attesa la rilevanza che si è così impropriamente riconosciuta a siffatte dichiarazioni, le difese rappresentano che le dichiarazioni di Mion sono risultate del tutto prive di riferimenti oggettivi e riscontrabili e rese da un soggetto che all’esito dell’esame si è dimostrato inattendibili – dicono gli avvocati -. Per certo vi è che il signor Mion della riunione ‘memorabile’ non ricordava il giorno, il mese, l’anno, la stagione e neppure i partecipanti di quella riunione e, ad espressa domanda della difesa, ha smentito la consapevolezza di qualsiasi rischio di crollo. Anzi, ha confermato che gli uffici tecnici preposti avevano garantito la sicurezza della infrastruttura”. Gli avvocati della difesa, oltre a giudicare inattendibile il testimone, ricordano che “una figura apicale di Aspi quale l’ingegner Tozzi ha escluso che nel corso delle cosiddette ‘induction’ e in particolare nella riunione di settembre 2010 siano mai emersi ‘difetti di progettazione’ o rischi di alcun genere riferiti al ponte Morandi”. Inoltre, “la sorveglianza sul ponte avveniva sia attraverso Spea sia attraverso altre società terze ed esperti qualificati che nel corso degli anni si sono avvicendati”. Dunque, secondo la difesa, nessun ricorso all’autocertificazione.

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