Mentre l’ultimo studio della società di consulenza Ey certifica che la prestante industria tedesca continua a perdere pezzi (negli ultimi dodici mesi sono stati persi oltre 100 mila posti di lavoro nella manifattura e di questi circa 1 su 2, ovvero il 45% nelle attività legate alla produzione di auto) e la situazione, con la battaglia sulle terre rare diretta conseguenza del conflitto sui dazi voluto dagli Usa di Donald Trump difficilmente migliorerà nei mesi a venire, la vera spia sul cruscotto che nessuno avrebbe pensato di veder accesa tanto presto riguarda la Cina e, per la precisione, da uno dei colossi dell’auto più attivi qua in Europa: Geely.
ANCHE LE INDUSTRIE CINESI TIRANO IL FRENO A MANO
Li Shufu, fondatore e presidente del colosso nato nemmeno 40 anni fa per produrre ricambi di frigoriferi (sul sito ufficiale ostentano con orgoglio che la società fosse nata tra le cascine poverissime della città di Tainzhou, nello Zhejiang) oggi trai i conglomerati asiatici maggiormente arrembanti (nel 2022 il fatturato era di 55,86 miliardi di dollari) ha annunciato la necessità di razionalizzare ogni spesa, rivedere gli innumerevoli impegni presi finora e, soprattutto, fermare tutti i progetti per la realizzazione di nuove fabbriche. In una parola: Geely ha necessità di tagliare. “L’industria automobilistica globale – ha sentenziato – è impantanata in gravi problemi di sovracapacità, per cui abbiamo deciso di smettere di costruire nuovi impianti di auto”,
SE GEELY PIANGE GLI EUROPEI NON RIDONO
Una pessima notizia, paradossalmente, anche per il mondo dell’auto europeo. Non solo perché i singoli Paesi membri della Ue, stante le difficoltà in cui versano i marchi autoctoni, vanno a caccia di Case cinesi che impiantino nel cuore del Vecchio continente le proprie fabbriche (il governo Meloni soprattutto nel pieno della crisi con Stellantis aveva corteggiato senza pudore i principali esponenti) eludendo così i dazi imposti in autunno da Bruxelles, ma anche perché come si anticipava poco sopra Geely è stata tra le prime aziende cinesi ad approdare in Europa, non coi marchi propri ma facendo shopping nell’azionariato di quelli locali.
I MARCHI EUROPEI NEL PORTAFOGLI CINESE
Negli ultimi tre lustri Li Shufu si è accaparrato nel 2010 la svedese Volvo acquistandola da Ford (azienda che non sta affatto dando alla proprietà asiatica le soddisfazioni sperate) e sette anni dopo, tramite la malese Protus, anche la britannica Lotus. E non è finita qua, perché Geely è socia al 50% con Mercedes Benz nel controllo del marchio Smart e tra le sue ultime mosse nel Vecchio continente ha partecipato alla creazione di Horse, una joint venture con Renault per la produzione di motori ibridi e termici nella quale in un secondo momento s’è aggiunto anche il colosso petrolifero saudita Aramco. Finora, insomma, Geely ha speso tantissimo in Occidente. Finora, appunto.
LE CINESI ORA DOVRANNO FARE DA SOLE
Per comprendere cosa stia accadendo adesso bisogna aprire una parentesi sulle modalità d’intervento del partito comunista cinese negli affari delle aziende autoctone. Il governo cinese in tutti gli ambiti in cui ha deciso di puntare in questi ultimi 20 anni in quanto ritenuti strategici per attuare il sorpasso sugli Usa ha sempre attuato la medesima strategia: prima ha imposto agli industriali di seguire una determinata linea d’azione, inondandoli di denaro pubblico, quindi ha interrotto bruscamente i sussidi e gli aiuti di Stato lasciando emergere i campioni da schierare a livello mondiale.
Per gli analisti anche l’automotive cinese sarebbe ormai arrivato al momento del darwinismo industriale. Una prima spia che quel momento fosse ormai vicino risalirebbe persino a un paio di anni fa con l’interruzione degli incentivi a sostegno dell’acquisto di auto elettriche, mentre la recente guerra dei prezzi scoppiata in patria a causa delle improvvise mosse commerciali di un altro colosso cinese molto presente in Europa (anche se con tutt’altre strategie), ovvero Byd, sarebbe proprio preludio dello scenario più temuto da analisti e investitori.
LE MOSSE DI GEELY VANNO VERSO LA RAZIONALIZZAZIONE DELLE SPESE
Geely, ben prima di annunciare lo stop degli investimenti per la costruzione di fabbriche in Occidente, aveva già da tempo avviato operazioni di efficientamento all’interno del proprio portafogli, per esempio lanciando una offerta pubblica d’acquisto sul marchio Zeekr con l’obbiettivo di toglierla dalla Borsa di New York così da sfuggire alle possibili conseguenze azionarie delle rinnovate tensioni tra Washington e Pechino e soprattutto avere le mani libere nell’attuare quella semplificazione del perimetro operativo necessaria per ridurre i costi. Una strategia che qua in Europa già si era manifestata con la necessità di riscrivere la catena di controllo di Volvo e del marchio elettrico Polestar.
Difficile comprendere, in un panorama di partecipazioni tanto intricato, le possibili conseguenze di tali mosse. Di certo in campo automotive è più che mai veritiera l’immagine utilizzata per spiegare il cosiddetto effetto farfalla: il semplice battito d’ali del lepidottero a Pechino può infatti causare un uragano in tutt’altra parte del mondo. E quella parte del mondo potrebbe essere l’Europa.