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Bruxelles Alitalia

Alitalia? Chiudere o raddoppiare. Ecco come

Sono due le uniche alternative per Alitalia. L'intervento di Gianni Rossi, per oltre 20 anni nel settore dell’aviation dapprima in Alitalia, poi in AirOne come CFO, infine in Meridiana ed Eurofly delle quali è stato amministratore delegato dal 2005 al 2010. 

 

Allo stato delle cose il piano dell’ennesima fenice Alitalia, ora chiamata Ita, oltre a palesarsi, per chiunque abbia una minima competenza, insostenibile nel medio termine, è pure evidentemente privo di ogni valenza di pubblica utilità, inutile per lo sviluppo del Paese. Serietà e urgenza dei progetti e delle decisioni, nello scenario del reset post pandemico del settore, sono ormai ineludibili e quasi fuori tempo massimo.

Le uniche due alternative, rispettose del denaro pubblico e delle norme europee, sul tavolo di chi è chiamato a decidere sono collocate ai due estremi dell’analisi:

  1. la liquidazione in bonis dei dipendenti e la gestione a livello centrale/nazionale degli oneri di pubblico servizio inclusi i contributi ai vettori LCC (low cost carrier) da parte degli aeroporti: unico servizio che avrebbe una concreta utilità pubblica e che costerebbe meno di 1/20 delle somme stanziate per Ita;
  2. realizzare la “discontinuità aziendale” invocata da Bruxelles, non attraverso una riduzione del perimetro, ma piuttosto mediante un progetto che contempli un rilevante incremento delle attività fino a 300 aeromobili, di cui almeno il 75% nuovi e di proprietà, e che abbia come linea strategica fondante la riduzione dei costi unitari (da avviarsi per opportunità e necessità già nell’ambito dell’amministrazione straordinaria) al fine di poter competere in Europa nel prossimo futuro ad armi pari con i reali concorrenti: i vettori lowcost ed essere significativamente presente sul lungo raggio passeggeri e cargo. Tale progetto potrebbe certamente preservare tutti i dipendenti, gli avviamenti, gli asset (inclusi gli slot), i marchi ed il know-how della Alitalia in A.S. e della ex- Meridiana Fly, portando in tal modo alla rinascita di uno dei settori industriali più importanti del nostro Paese.

Le ragioni che inducono a dichiarare percorribili solo due strade così drastiche e radicalmente opposte non sono la conseguenza di emozioni e retorica, bensì fondate sull’osservazione dei numerosi tentativi fallimentari del passato che sono sotto gli occhi di tutti, sulla neutrale lettura dei dati tecnici disponibili per tanti, sull’impegno nell’interpretare il futuro prossimo, fatica cui malauguratamente gli addetti ai lavori al capezzale Alitalia mai hanno avuto gran voglia di dedicarsi, nemmeno questa volta di fronte all’enormità dei prevedibili ed ineluttabili mutamenti post pandemici.

Desta amarezza constatare che dopo tre pseudo-fallimenti (2008, 2014 e 2017) seguiti da altrettante fasi di amministrazione straordinaria gestite, purtroppo, con modalità “sostanzialmente ordinaria” ed un 2020 che ha visto la decimazione del trasporto aereo passeggeri a livello mondiale a causa della pandemia, il Governo Italiano stia cercando di convincere l’Unione Europea a dare il via libera ad un progetto di trasformazione di quello che resta della vecchia Alitalia (ancora in A.S.), in una nuova realtà “autosostenibile” con una flotta di 45 aeromobili, 4.500 dipendenti (dagli 11.000 attuali), una quota passeggeri intorno al 7% del mercato italiano e con l’unico obiettivo esplicitamente dichiarato di far volare ancora la bandiera italiana.

Questa Alitalia/Ita per cui tanto lotta il Governo è un vero dilettantistico pastrocchio: un numero di dipendenti incoerente, per eccesso, con le effettive esigenze dei 45 aeromobili prospettati. Una dimensione della flotta che la collocherebbe in centesima posizione nella classifica mondiale. Se si guarda infatti all’ultima statistica pre-Covid per volumi di traffico di tutte le compagnie aeree – private e pubbliche – della Iata (associazione internazionale dei vettori) la nostra Ita si posizionerebbe, in partenza, con un avviamento potenziale pari al 40% degli aerei utilizzati nel 2019, circa 15 mln RPKs e circa 10-11 mln di passeggeri, in compagnia dell’Egyptair e del vettore regionale SriLankan Airlines. Posizionamento incoerente con l’appartenenza dell’Italia al G7 o al G20. Piuttosto un posizionamento “giusto per partecipare”, all’interno del gruppone dei vettori di bandiera che tentano di sopravvivere nell’iper-competitivo mercato del trasporto aereo mondiale grazie agli aiuti pubblici e facendo leva sui vecchi accordi bilaterali ove gli Stati decidono la ripartizione delle rotte, dei voli e dei prezzi. Peccato che questa strategia non sia più applicabile da moltissimi anni ai vettori europei!

Fa sorridere che i nuovi vertici di Ita dichiarino a più riprese di poter recuperare rapidamente, nel giro di due/tre anni, la cinquantesima posizione Iata raddoppiando la flotta. Delle due l’una: o si ipotizza che i principali concorrenti, dopo aver rimpiazzato Alitalia nel 50% dei vecchi collegamenti 2019, si ritirino di buon ordine di fronte all’impressionante dispiego della bandiera italiana, oppure Ita, in gran segreto, dispone di un’arma competitiva finora sconosciuta e assai potente. Il borioso intento di deliberare, nel 2022 o 2023, un aumento della capacità offerta e nuovi investimenti, con denaro pubblico, in presenza di sostanziose perdite nel primo anno/biennio di attività, purtroppo per il CdA di Ita sarà facilmente frustrato visto che stavolta, diversamente dall’amministrazione straordinaria, dovrà anche presentare dei bilanci economici e sottostare al vincolo aeronautico economico del going concern.

Per realizzare tutto ciò si vorrebbe dotare Ita e il suo CdA di ben 3 miliardi di euro. Con queste premesse sembra quasi che il Governo italiano si sia voluto presentare al tavolo della discussione sulla “discontinuità aziendale” con il Commissario Vestager per confermare a quest’ultima ciò che Bruxelles sospetta da sempre, con la maggioranza dei cittadini italiani ed europei, sulla annosa crisi dell’Alitalia, e cioè che lo Stato italiano non ha assolutamente alcuna visione né alcuna capacità imprenditoriale per gestire in modo profittevole una compagnia aerea e che questa non sia altro che una delle tante iniziative volte all’inutile sperpero di denaro pubblico.

Le carte con le quali i nostri Ministri si sono seduti al tavolo Ue sono, nell’ordine:

1.    una strategia confusa e una dimensione dell’impresa Ita non coerente con il vantato ruolo Hub&Spoke di un network carrier; ruolo che negli ultimi 20 anni è stato esclusivamente utilizzato come alibi, dalle organizzazioni sindacali e dal management, per non procedere ad una seria “rivoluzione” dell’organizzazione aziendale che seguisse le dinamiche evolutive del settore;

2.    un posizionamento prevalente su Roma FCO, mercato caratterizzato da proventi unitari molto bassi e in discesa (traffico prevalentemente turistico), non compatibile con gli elevati costi di Alitalia e con i costi aeroportuali di ADR;

3.    un impegno finanziario (3 mld di euro!) pari ad almeno dieci volte l’ammontare del commitment di cui si farebbe carico un investitore privato (al netto dell’esborso per rilevare i complessi aziendali) per un’analoga iniziativa imprenditoriale a valori di mercato;

4.    nessuna seria strategia e nessuna cultura interna di cost e process control per una drastica riduzione dei costi unitari di produzione Alitalia che al momento sono pari a circa il doppio del principale vettore concorrente presente in Italia e su FCO;

5.    una “scatola vuota” Ita — con un CdA di nove persone, 40 dipendenti e molti consulenti — costituita con larghissimo anticipo che, oltre a dimostrare ab origine la scarsa sensibilità alla riduzione dei costi, sembrerebbe un ottimo trailer per una nuova serie televisiva sulle crisi industriali di Alitalia.

La Iata colloca nel 2024 il ritorno ai volumi di traffico mondiali pre-covid. A quella data ITA dovrebbe sviluppare, secondo il piano del suo CdA, un volume di attività rispettivamente pari a circa 1/15 e a 1/10 dei potenziali partner strategici Delta e Lufthansa e, nelle intenzioni del Piano, con una di queste compagnie si cercherà un “accordo che produca rilevanti vantaggi in termini di traffico e margini economici”. Viste le forze in gioco, la negoziazione per ottenere tali risultati non potrà che essere velleitaria.

Ancora una volta non si mostra alcuna memoria degli errori strategici e gestionali commessi negli ultimi trent’anni. Né mancano al coro le grandi firme della consulenza globale che, sulla scia di quanto elaborato in passato in termini di piani di ristrutturazione di Alitalia finalizzati al recupero, invero mai raggiunto, dell’equilibrio economico, prescrivono una volta di più, perfino nel contesto di novità assoluta del “reset” post pandemico, la stessa usuale, scellerata ricetta, basata sulla riduzione della flotta e del numero dei collegamenti offerti. Omettendo di inserire anche un solo progetto che punti a risolvere i primari problemi della “AZ_LAI_CAI_SAI_ITA”: flotta, servizio, produttività e costi e non certo alleanze, network e pubblicità. I consulenti sanno che nel trasporto aereo contemporaneo vincono e sopravvivono sempre quelli che hanno i costi per sedile più bassi ed i volumi di traffico più elevati. Per i politici e gli opinionisti sarebbe meglio farsene una ragione prima di intavolare qualsiasi discussione in Europa e scrivere sui giornali qualche articolo di troppo contro i dipendenti di Alitalia.

Ma qual è il percorso che bisognerebbe intraprendere? Innanzitutto, la definizione di un posizionamento competitivo realistico e convincente. Il nuovo piano industriale, pur denso di colorate schede in PowerPoint, non fa il minimo cenno al semplice principio economico che sovrintende alla pianificazione e alla gestione di un’azienda di trasporto aereo civile riassumibile nel concetto organizzativo dello “sfruttamento della fisiologica leva operativa tramite un continuo aumento dei volumi di produzione e della produttività aziendale affiancato da una contestuale, continua e ossessiva, riduzione dei costi”.

Vale la pena ricordare ai pianificatori che, fatta eccezione per quelle realtà protette da normative locali o sussidiate pubblicamente, nessuna compagnia nella storia recente del trasporto aereo è mai riuscita a migliorare i risultati, ridurre le perdite economiche attraverso una riduzione delle attività di volo, mentre all’opposto,  tutte le concentrazioni, realizzate negli ultimi 50 anni nel settore grazie ai processi di deregolamentazione, hanno avuto successo proprio in ragione di un ampliamento del perimetro di attività con conseguente sfruttamento della leva operativa, delle economie di scala,  della riduzione dei costi fissi e dell’aumento delle produttività. Questi i fatti.

La vecchia minestra del nuovo piano ripropone la storia già vista, in un contesto competitivo post-covid in Italia che manterrà presumibilmente tutte le vecchie criticità relative ai bassi tassi di crescita economica e all’elevata incidenza degli extra-oneri del “Sistema Italia”, cui si aggiungeranno le nuove criticità derivanti da una naturale riduzione del numero dei passeggeri business ormai abituati a modalità di relazione “virtuale” tramite videoconferenze. E quanto sopra avrà una maggiore incidenza proprio sui vettori tradizionali o network carrier, ciò che dichiara di voler essere Ita. Essi si reggono principalmente sul traffico business rispetto a quelli lowcost, a vocazione turistica, ormai ben radicati ed in continua espansione nel nostro Paese.

Proprio relativamente al posizionamento competitivo, la nuova compagnia ITA che ha il 90% degli aeromobili in grado di volare tra Europa e Mediterraneo e che insiste su un Paese con traffico prevalentemente turistico deve guardare necessariamente a ciò che fanno i vettori lowcost europei. Oltre il 60% delle quote del mercato Italia è in mano a quest’ultimi e, nell’attuale piano, i costi unitari di produzione della nuova Ita saranno nella migliore delle ipotesi il doppio di quelli del primo vettore in Italia che si chiama Ryanair mentre un’altra LCC, la WizzAir, campione di efficienza sul modello Ryanair, sta sferrando un clamoroso attacco alla conquista del mercato italiano. Tutto questo è sdegnosamente accantonato nel nuovo piano e i dubbi che i tecnici del commissario Vestager esprimono sulle premesse e le analisi presentate da Ita non mancano purtroppo di fondamento.

La seconda area tematica da affrontare riguarda la politica industriale nazionale e il ruolo di un vettore aereo in quest’ambito. Considerato il notevole investimento pubblico richiesto questo tema è centrale: all’Italia serve Alitalia?

La questione dovrebbe essere al centro del dibattito politico che invece, negli ultimi anni, si è focalizzato su decisioni collaterali e spesso fuorvianti come le scelte sugli Oneri di Sistema, le Alleanze e i contributi degli aeroporti alle lowcost e la Bandiera. Ovvero, non riuscendo a cambiare il paradigma culturale e gestionale della ex-Alitalia si è ritenuta miglior politica lasciare che i servizi di trasporto aereo venissero offerti solo da chi sa gestire il business e limitarsi, senza grandi successi, a difendere i diritti dei lavoratori italiani al servizio delle lowcost straniere.

Sulla natura pubblica o privata della compagnia Alitalia occorre partire dalla consapevolezza del fallimento di tutte le iniziative imprenditoriali private del passato. Ciò a conferma, come ampiamente sperimentato in tutto il mondo, di come una compagnia aerea di una certa dimensione esprima un rischio sottostante difficilmente gestibile, quantomeno nelle fasi di crisi esogena, da azionisti diversi dagli Stati, da importanti Fondi di investimento o dal pubblico indifferenziato dei risparmiatori (società quotate). Per Alitalia, peraltro, le stesse iniziative imprenditoriali, a volte solo apparentemente private, hanno poi determinato notevoli sofferenze per le casse pubbliche aggiungendo beffa al danno.

Coscienti di ciò, occorre piuttosto concentrarsi su quali collegamenti si intendono effettuare per rendere davvero utile la compagnia per il Paese, utilità difficile da rinvenire nel Piano di Ita se quasi tutti i collegamenti che verranno effettuati sono in concorrenza con altri vettori i quali, anche in assenza di Ita, continuerebbero comunque ad offrirli. Né si può tralasciare di mettere in primo piano la vocazione dell’Italia e quindi l’esigenza di avere una Ita pubblica che promuova lo sviluppo del turismo fuori dai picchi stagionali e che faciliti la mobilità business da e per le zone meno servite del Paese come, per esempio, le isole o alcune zone adriatiche. E guardando al futuro invece che al passato, una compagnia capace di servire il commuting business connaturato al recente fenomeno del south working europeo, dove l’Italia, quantomeno per posizione geografica, ha molte carte da giocare.

Più in generale, rispetto alle politiche industriali nazionali bisogna osservare come in Francia e in Germania la presenza di una Compagnia di rilevanti dimensioni, con dei network imperniati su grandi aeroporti sia capace di generare sviluppo economico diretto ed indiretto significativo su sei direttrici:

  • lo sviluppo del turismo incoming;
  • volumi incrementali di passeggeri stranieri che transitano sull’Hub;
  • sostenibilità di collegamenti “sottili” che non sarebbero in equilibrio economico con i ricavi dei soli passeggeri c.d. point to point;
  •  sviluppo delle attività di manutenzione aeromobili;
  • sviluppo delle attività di handling aeroportuale;
  • leva negoziale verso l’industria manufatturiera per la localizzazione di produzioni.

Senza dilungarsi in spiegazioni tecniche, la dimensione minima che Alitalia/Ita dovrebbe avere, per diventare un vero volano del Pil, non può essere inferiore ad almeno 250/300 aeromobili. Numero certamente compatibile con i volumi di traffico in Italia del prossimo futuro e che costituirebbe l’unica dimensione d’impresa coerente non solo con lo scenario competitivo e le economie di scala, ma soprattutto con la profondità di intervento che si richiede ad uno Stato come l’Italia.

Tale impresa pubblica presupporrebbe una visione, una strategia e una gestione radicalmente diverse da ciò che è attualmente sui tavoli dove si discute la politica industriale del nostro Paese. È evidente che un investimento di 3 miliardi di euro può sostenere un’aerolinea di circa 300 aeromobili nella propria flotta. Del resto, basta seguire i criteri del regolamento CEE 1008/2008 e i correlati modelli EAL 16 per verificare con facilità quale sarebbe un investimento coerente con una flotta di 300 aeroplani, anche considerando le resilienze dei costi fissi che da quella soglia dimensionale determinano certamente notevoli economie di scala e di scopo.

L’obiezione che una strategia così espansiva mal si concilierebbe con le finanze pubbliche di un Paese indebitato come il nostro è capziosa e infondata. I 3 miliardi di euro stanziati per la nuova Ita – a cui aggiungere almeno un altro miliardo per la gestione degli esuberi e delle pendenze della vecchia Alitalia in amministrazione straordinaria (BadCo) – non sono certamente una somma molto diversa da quella che sarebbe necessaria per un piano espansivo. Basti considerare che il colosso Ryanair, con oltre 450 aeromobili, che opera senza brevetti e segreti industriali, dotato di un patrimonio di slot aeroportuali pregiati inferiore a quello di Alitalia, è una delle compagnie aeree più patrimonializzate del mondo e presenta un saldo patrimoniale tra attivo e passivo esattamente di circa 3 mld di euro!

 

(Gianni Rossi ha lavorato per oltre 20 anni nel settore dell’aviation dapprima in Alitalia, poi in AirOne come CFO, infine in Meridiana ed Eurofly delle quali è stato amministratore delegato dal 2005 al 2010. È stato ultimo Amministratore Delegato di una Compagnia Aerea Italiana di linea ad aver chiuso dei bilanci societari in utile. Attualmente lavora nel settore finanziario e assicurativo)

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