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Pillole anti Covid, come va quella di Merck (e cosa fa con Irbm)

Ecco i risultati aggiornati della pillola Merck anti Covid e alcune indiscrezioni sull’azienda italiana di biotecnologie Irbm

 

La pillola anti Covid di Merck e Ridgeback Biotherapeutics, il molnupiravir, ha superato uno degli ultimi ostacoli negli Stati Uniti. Il panel di consulenti sanitari della Food and Drug Administration (Fda) ha votato a favore del farmaco antivirale, nonostante i dati aggiornati della sperimentazione abbiano evidenziato un notevole calo dell’efficacia.

Ora si attende, entro la fine dell’anno, la decisione finale della Fda, che non è vincolata dalla raccomandazione del panel.

IL PARERE DEL PANEL

Dopo ore di dibattito è arrivato il parere del comitato che ha discusso dei benefici e dei potenziali problemi di sicurezza relativi alla pillola di Merck.

Alla fine, si legge sul sito della casa farmaceutica, l’esito è stato positivo, con 13 voti a favore e 10 contrari.

LA DECISIONE FINALE

In caso approvazione anche della Fda, il molnupiravir sarebbe il primo antivirale contro il Covid che i pazienti possono assumere da soli, senza bisogno di essere ospedalizzati o sottoposti a sorveglianza medica.

Questo alleggerirebbe la pressione sugli ospedali e ridurrebbe i decessi.

A CHI È CONSIGLIATA

La pillola di Merck è indicata per il trattamento di adulti positivi al Covid in una forma da lieve a moderata e che hanno già altre problematiche – come obesità, asma o vecchiaia – che potrebbero aggravare la condizione.

A CHI NON È CONSIGLIATA

Il comitato ha aggiunto poi che il farmaco non dovrebbe essere assunto da donne in gravidanza e ha invitato la Fda a raccomandare ulteriori precauzioni – come i test di gravidanza per le donne prima di usare il farmaco.

COSA HA DETTO MERCK

“Con la continua diffusione del virus e l’emergere di varianti, sono urgentemente necessari ulteriori trattamenti per il Covid. Ecco perché ci stiamo muovendo con velocità e rigore per perseguire le autorizzazioni e per accelerare un ampio accesso globale a questo farmaco sperimentale”, ha detto il dottor Dean Y. Li, vicepresidente esecutivo e presidente di Merck Research Laboratories.

MENO EFFICACE DEL PREVISTO

Lo studio clinico di fase 3 MOVe-OUT aveva dimostrato che la pillola di Merck dimezzava il rischio di ospedalizzazione e decesso nei pazienti a rischio, anche nel caso delle varianti Delta, Gamma e Mu.

Il recente aggiornamento dello studio, tuttavia, ha ridotto dal 50 al 30% l’efficacia del farmaco. Il 26 novembre, Merck e Ridgeback Biotherapeutics hanno comunicato in una nota congiunta che secondo lo studio – ampliato dai 775 pazienti di ottobre a 1.433 – la pillola aveva ridotto il rischio di ospedalizzazione o morte del 9,7% (contro il 14,1% dello studio ad interim) mentre nel gruppo che aveva ricevuto il placebo si è abbassato dal 7,3% al 6,8%, con una riduzione del rischio assoluto del 3% (prima 6,8%) e una riduzione del rischio relativo del 30%, invece che del 48%.

LA PARTNERSHIP MERCK-IRBM

Merck continua a lanciarsi in nuovi progetti, come quello con l’azienda italiana di biotecnologie Irbm, con sede a Pomezia. Le due società, come annunciato l’anno scorso sul sito di Irbm, stanno lavorando a “un nuovo farmaco anti Covid in formulazione aerosol o iniettabile, utilizzando una piattaforma valida per l’adattamento alle varianti emergenti”.

ANCHE IRBM AVRÀ LA SUA PILLOLA ANTI COVID?

Il direttore scientifico della Irbm Carlo Toniatti ha poi riferito due giorni fa all’Ansa anche di un progetto di ricerca interna su una nuova pillola orale anti Covid: “è incentrato sullo sviluppo di una molecola in grado di inibire una delle proteine essenziali per la replicazione del virus, diversa dalla proteina Spike”, ha detto.

“La proteina Spike – ha chiarito Toniatti – è sulla superficie del virus Sars-CoV-2 ma lo stesso virus per replicarsi, una volta all’interno dell’organismo ospite, ha bisogno di varie proteine ‘interne’ che non sono colpite dai vaccini attuali. Si tratta, dunque, di proteine che servono a far replicare il virus, ma diverse dalla Spike”.

L’obiettivo, quindi, “è dunque quello di inibire tali proteine interne in modo che il virus non possa replicarsi una volta presente nelle cellule dell’organismo ospite”.

Gli studi, ha concluso Toniatti, “sono iniziati e i dati definitivi sulla fattibilità sono attesi per il 2023”.

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