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Solitudine

Le due facce della solitudine

Siamo immersi in un universo linguistico carico di molteplici significati semantici e simbolici, disponiamo di una dotazione straordinaria di mezzi di comunicazione, siamo assorbiti dalle nuove tecnologie, invaghiti dai beni materiali, omologati dall’affabulazione digitale. Eppure capita di non riuscire a capirci. È forse questa la vera solitudine che si impone e ci incupisce oltre un nostro atto di volontà? L’articolo di Francesco Provinciali

 

La solitudine è l’anima nascosta e segreta della vita, ma come non avere la sensazione che oggi, nel mondo della modernità esasperata e della comunicazione digitale, sia grande il rischio di naufragare nell’isolamento?

Il Prof. Eugenio Borgna – decano degli psichiatri italiani e assai noto in campo internazionale – considera la solitudine una condizione esistenziale sempre presente nelle alterne vicende della vita.

Ciò che lo radica in questa idea non è solo un dovere di etica professionale ma anche e soprattutto il convincimento, maturato in anni e anni di cura e di ascolto dei pazienti, che occorre un approccio terapeutico più ampio di quello strettamente clinico che va dunque accompagnato da una spiccata sensibilità umana, una spontanea propensione all’introspezione per conoscere, capire, aiutare. Scienza e umana comprensione non sono dunque poli separati e antitetici ma approcci compresenti, incentrati sul dialogo reciproco e nell’ascolto empatico del paziente psichiatrico, una nuova maniera più rispettosa dello stato di sofferenza della persona.

Borgna si conferma tenace sostenitore di una “psichiatria dell’interiorità”, capace di scorgere quella dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico, attraverso una prospettiva interdisciplinare che coinvolge discipline e campi eterogenei, quali la letteratura, la filosofia e l’arte, nel tentativo di evidenziarne la dimensione plurima e complessa restituendo così un significato condiviso alla dimensione esistenziale della sofferenza e alle sue forme di manifestazione, che possono essere intercettate e approfondite solo se è il terapeuta che compie un passo verso il malato e gli tende la mano.

Nell’esordio del suo libro In dialogo con la solitudine l’autore si sofferma sulla distinzione tra solitudine e isolamento: si tratta di due stati d’animo differenti. Citando le Confessioni di Sant’Agostino ed evocando la categoria del ‘tempo’, distingue tra “solitudine creatrice”, cercata, voluta e “solitudine ferita”, quasi autistica, dove viene spezzata la circolarità tra presente, passato e futuro, dove muore la speranza. Nel caleidoscopio della precarietà esistenziale si riscontra una molteplicità di solitudini, a volte subìte, altre desiderate o accettate ma pur sempre diverse rispetto all’isolamento, soprattutto in rapporto ai cangianti contesti di vita e alle relazioni con gli altri nonché ai processi che possono evitare uno stato di irreversibilità difficile da spezzare.

Nella sua prolifica produzione di saggistica e certamente anche qui, dove Borgna cerca il dialogo con la persona sola, la riflessione si sofferma spesso sui sentimenti, sulle emozioni, sugli stati d’animo che per un professionista della “umana comprensione con valenza terapeutica” sono una categoria di conoscenza imprescindibile ma anche una scelta di metodo: a chi legge capita di essere colpito e affascinato dal ricorrente uso della parola “cuore” e dall’ascolto delle sue “intermittenze”.

Si coglie dunque un approccio olistico alla condizione umana, l’alfabeto dei sentimenti diventa quasi prevalente (come fonte di indagine e di cura) su quello strettamente clinico. Tutti sappiamo che il “cuore” è una metafora letteraria usata per descrivere emozioni e sentimenti, non certo la sede fisiologica dei comportamenti cognitivi o affettivi. Non sfugge tuttavia l’intenso richiamo che Borgna propone delle liriche di Leopardi, delle poesie di Emily Dickinson e di Katherine Mansfield, o delle lettere di Rainer Maria Rilke dimostrando quanto sia importante questa scelta umanistica per la comprensione delle fragilità interiori.

Borgna non dimentica di evocare il periodo pandemico che abbiamo attraversato, con la paura del contagio, della malattia, della morte -, una lunga fase critica dalla quale fatichiamo ancora adesso a uscire – ci ha radicati nel timore del contatto, considerando il prossimo come una fonte di pericolo, quasi un nemico da evitare. Questo noli me tangere ha lasciato tracce forse indelebili e ci ha cambiati. La solitudine è stata una condizione imposta dall’isolamento e dal distanziamento come scelte terapeutiche e di profilassi: viene da chiedersi se e come riusciremo a metabolizzare questa esperienza rendendola reversibile per il futuro.

Assai interessante la trattazione del tema della solitudine in relazione ai contesti di vita: capita di sentirsi soli immersi in una folla vociante e di non sentirsi soli in un deserto, se l’ascolto di sé e il desiderio di interiorità ci porta ad aprirci agli altri o ci aiuta nella ricerca di un dialogo con Dio.

Non conta tanto infatti la presenza fisica quanto la sapientia cordis, la disponibilità dell’animo.

Anche se Borgna predilige i ricordi e le retrospettive intimiste poiché sovente anche la pratica della solitudine, come occasione di riflessione, ci custodisce. Ogni solitudine ha poi una stagione, con peculiarità sue proprie: tra l’adolescenza e la vecchiaia le età della vita esprimono condizioni di solitudine diverse.

Ci sono solitudini nell’infanzia e nell’adolescenza quasi impenetrabili: a volte si trascinano per l’intera vita, lasciano ferite e cicatrici non sempre rimarginabili. Ci sono ragazzini che “sballano” per queste soccombenze, altri che pensano al suicidio come via d’uscita. Sono vittime, non carnefici.

Nella tarda età la solitudine comincia quando si vive più di ricordi che di speranze. Ad esempio gli anziani non sono considerati per la ricchezza di esperienza e saggezza che recano con sé: inutili, quasi espunti dai flussi vitali delle comunicazioni sociali, delle relazioni umane. Ricordo la bellissima definizione di Galimberti sull’appartamento come luogo dove ci si rifugia per “appartarsi”.

La burocrazia e la corsa verso le tecnologie e la digitalizzazione marginalizzano le persone anziane in una condizione di inevitabile e quasi spietata soccombenza, frappongono al loro bisogno di serenità ostacoli di codici alfanumerici complessi, di moduli indecifrabili, di assilli e incombenze insostenibili.

La solitudine emerge anche nella condizione di malattia e di sofferenza, assai ricorrente nella vita quotidiana. Parliamo di patologie incurabili, di case di riposo, di RSA, di lunghe degenze ospedaliere, di forme invalidanti, di internamento nei manicomi (di cui a lungo Borgna si è occupato) ora strutture psichiatriche. Per chi è in grado di riflettere sulle proprie condizioni di salute e di capacitarsi della loro gravità, nelle forme incurabili, la solitudine non è sempre buona consigliera. Molto possono aiutare l’umana comprensione, l’affetto, la vicinanza, l’empatia degli altri.

Spesso la solitudine diventa consustanziale alla malattia e alla sofferenza, silente compagno di viaggio verso il declino.

Ma lo stesso silenzio che a volte ‘spaventa’ può diventare il bene immateriale più prezioso e raro perché ci fa dono dell’ascolto di sé, ci scava dentro e nel profondo può essere persino rivelatore di verità nascoste. Bisogna essere capaci di fargli spazio nella nostra vita. La solitudine e il silenzio possono essere buoni compagni di viaggio nella riflessione poiché prendendo distanza dalle cose finiamo per essere più vicini alla nostra esistenza di quanto consapevolmente ci capiti di fare “vivendola”.

Siamo immersi in un universo linguistico carico di molteplici significati semantici e simbolici, disponiamo di una dotazione straordinaria di mezzi di comunicazione, siamo assorbiti dalle nuove tecnologie, invaghiti dai beni materiali, omologati dall’affabulazione digitale. Eppure capita di non riuscire a capirci. È forse questa la vera solitudine che si impone e ci incupisce oltre un nostro atto di volontà? Lo psichiatra umanista Prof. Borgna ci prende per mano e ci accompagna a scoprire quanto sia importante distinguere tra il silenzio che nasce da una depressione, dalla fatica di vivere, dalle angosce da cui non si riesce a liberarsi e il silenzio “come ricerca di una solitudine che consenta di meditare sul senso del vivere e del morire”.

La solitudine può avere dunque una funzione maieutica, perché ci mette in contatto con il passato, ci fa rivisitare il presente, può persino essere fonte generativa di una speranza, aiuto nella ricerca di ciò che è davvero essenziale. Trovo molto significativa la metafora che l’autore evoca nella chiusa della Sua riflessione, laddove paragona la solitudine a una “oasi nel deserto”. Importante perché l’oasi significa approdo e molto spesso salvezza – siamo tutti naufraghi alla deriva di una inevitabile precarietà esistenziale – ma anche per il deserto che sta intorno a noi, nonostante le apparenze di un ecumenismo virtuale, dove sovente la solidarietà e il perseguimento del bene comune non si materializzano nell’immaginario collettivo come un dovere che ci pertiene.

Questo inciso dovrebbe forse aiutarci a rispettare le solitudini altrui, a raccogliere l’invito di Prospero, quando cala il sipario ne La tempesta di Shakespeare, a essere “più indulgenti nelle cose della vita”.

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