Che la separazione sia stata vissuta come una sconfitta del patto d’amore oppure come una liberazione da una situazione divenuta insopportabile, il momento del confronto sulle decisioni da prendere per la gestione dei figli diventa un’occasione di rivincita, di puntualizzazione, di ripicca. Sovente si creano situazioni in cui la diatriba si protrae ad oltranza, spesso per onesti intendimenti e a volte invece per questioni di puntiglio, di prestigio, di orgoglio, per non darla vinta all’altro genitore, per dimostrare le proprie competenze e le carenze altrui. Poco importa se intanto il figlio resta stritolato nella morsa del conflitto, se vive condizioni prolungate di stress emotivo e psico-fisico, se subisce le reciproche angherie e i colpi bassi, inferti senza risparmio di accuse.
Ben poco di quello che si cerca di far valere nella fase che precede un eventuale accordo viene peraltro poi seguito da puntuali e coerenti realizzazioni.
Le rivisitazioni e la ricostruzione delle vicende del passato che hanno maturato le situazioni di conflitto sono generalmente ispirate ad una benevola indulgenza verso sé stessi: ci sono sempre giustificazioni che spiegano in chiave di lettura diametralmente opposta i rispettivi comportamenti. Riemergono le ragioni del dissidio su quelle della ricomposizione al punto che risulta poi difficile raggiungere un’intesa che permetta ad entrambi, reciprocamente e nei confronti della prole, di affrontare con serenità e onesto senso critico un periodo di prova perfettibile e quindi suscettibile di ulteriori revisioni. Le varie argomentazioni finiscono a volte per annullarsi a vicenda ma la vita stessa insegna, ben più dei codici, che le ragioni e i torti non possono essere diametralmente polarizzati. Sia che si raggiunga un accordo o che invece debba poi essere un tribunale ad intervenire d’autorità, cercando di interpretare i bisogni e le esigenze del minore, in entrambi i casi occorre poi una fase di verifica sull’applicazione dell’intesa o del decreto prescrittivo.
In genere lo scopo della contesa è dimostrare le personali capacità a scapito di quelle dell’altro genitore, non importa se questo può inoculare nel figlio conteso sentimenti di dubbio, sconcerto, delusione fino a provocare vere e proprie crisi di identità. Non bisogna dimenticare peraltro che la maggior parte dei tentativi di regolamentazione dei diritti-doveri che riguardano l’esercizio della genitorialità si riferiscono a figli in ancor tenera età.
Anzi è di tutta evidenza che l’importanza dell’accordo è direttamente correlata all’età del soggetto: più piccolo è il figlio e più particolareggiata dovrà essere la previsione regolamentativa in considerazione del maggior grado di dipendenza dei suoi vissuti e dei suoi bisogni rispetto alla responsabilità degli adulti che dovranno occuparsi di lui.
Pure che ciò sia dovuto a debolezza, insicurezza o reciproca sfiducia sono spesso proprio i padri e le madri che chiedono di formalizzare “nero su bianco” un’organizzazione minuziosa e dettagliata della vita del figlio: tutto deve essere particolareggiato, previsto, precisato, nulla deve sfuggire alla previsione più attenta e oculata.
E così si misurano e si soppesano i giorni, le ore e i minuti trascorsi dal minore con ciascuno dei due genitori, i rispettivi ambienti di vita e di accoglienza, la durata e il numero delle telefonate, la loro collocazione temporale, i regali ricevuti, la loro consistenza e utilità, la competenza professionale dei pediatri di reciproca consultazione, il tipo di vestiario scelto, il taglio dei capelli, la qualità e la varietà dell’alimentazione da entrambi procurata, l’iscrizione a scuola, l’occupazione del tempo libero, le frequentazioni amicali o parentali, i giorni di vacanza, la “santificazione” alternata delle festività, i programmi televisivi, i giochi, le letture e persino il livello di sicurezza e affidabilità dei rispettivi mezzi di trasporto su cui viene scarrozzato il pargoletto.
Il rituale è scontato e le parti in commedia assegnate: “partendo dal presupposto che nostro figlio sta meglio con me – come riuscirò a dimostrare – voglio che vengano valutate e approfondite le competenze affettive e le capacità di accudimento dell’altro genitore”.
Un’espressione di sentimento e una formale richiesta, generalmente reciproca, che danno il via ad una lunga fase di produzione di prove, narrazione di vissuti, confronti, approfondimenti, valutazioni (anche di tipo tecnico-specialistico, come vedremo più avanti). Intanto il figlio cresce e i suoi vissuti vengono studiati e usati per avvalorare la propria tesi e confutare quella avversa; più che della presenza delle normali e positive relazioni affettive di cui avrebbe bisogno egli avverte di trovarsi al centro di una contesa dall’esito incerto: solitamente infatti il padre e la madre ‘confliggenti’ gli spiegano la propria verità e questo – alla fin fine – non lo aiuta certo a trovarsene una sua personale. Tra stoccate di fioretto e colpi di mortaio i contendenti affilano le armi per l’affondo finale con un intendimento iniziale dichiaratamente lodevole: realizzare il prevalente anzi (come solitamente si dice, con enfasi e generosa disponibilità) “l’esclusivo interesse del minore”.
Ma quali sono i punti e le ragioni del contendere?
Innanzitutto l’affido che può essere ad uno dei due genitori o condiviso, una modalità recentemente introdotta nell’ordinamento del diritto di famiglia.
E poi il collocamento prevalente: con “chi” , “dove” e “per quanto tempo” dovrà vivere il minore, trascorrere i momenti rituali e significativi della sua giornata, mangiare, vestirsi, fare i compiti, dormire.
E’ evidente che sul piano formale l’affido ha una valenza “certificativa”, stabilisce in pratica se c’è prevalenza o condivisione tra i due genitori nelle responsabilità di tutte le decisioni che riguardano la sua vita.
Sul piano sostanziale la decisione di formalizzare un “collocamento prevalente” risulta più legata alle routine pratiche, alla quotidianità delle relazioni affettive del minore, alle sue frequentazioni, ai riferimenti rispetto alle presenze adulte che lo circondano ma va precisato che in genere ciò è più determinante in caso di gestione condivisa, mentre nell’ipotesi di affido al padre o alla madre c’è praticamente coincidenza e sovrapposizione rispetto all’effettivo luogo di vita del minore stesso.
Correlato in modo speculare a tale aspetto c’è il punto relativo alla regolamentazione delle modalità di incontro e di visita tra il minore e il genitore non affidatario.
E’ questo l’ambito di organizzazione della vita del figlio che coinvolge emotivamente in modo più marcato entrambi i genitori. C’è infatti una tipizzazione reciproca dei ruoli, un gioco della parti in un copione già scritto: il genitore “collocatario” tende a restringere o limitare in modo vincolante gli spazi e i tempi che il minore trascorre con l’altro genitore e, reciprocamente quest’ultimo cerca invece di spuntare modalità più estese, che gli consentano di passare il maggior tempo possibile con il proprio figlio, nei modi e nei luoghi preferiti.