La normativa di base dell’urbanistica italiana risale, ancora oggi, al 1942. Con la legge n. 1150 del 7 agosto di quell’anno. Da allora non sono mancati, ovviamente, le modifiche di quello o quell’altro aspetto. Anzi esse sono state numerose: ben 71 fino all’inizio del terzo millennio, con ben quattro interventi della Corte costituzionale rivolti a cassare norme ritenute viziate. Ma i principi fondamentali hanno resistito ad ogni evento. Al punto che, proprio nelle settimane trascorse, era stato il cosiddetto “Salva Milano” (ribattezzato da Ignazio La Russa, presidente del Senato il “Salva giunta milanese”) a tentare di modificarne alcuni articoli (primo comma dell’articolo 41 quinquies), ch’erano di ostacolo alla continuazione dei lavori in molti dei cantieri aperti sul territorio meneghino.
Per la verità, in passato, non era mancati tentavi di riforme organiche. Forse quella più significativa era stata opera di Fiorentino Sullo, ministro democristiano ai lavori pubblici. Il testo relativo era stato redatto, anche grazie ad una collaborazione con l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) nel 1962. Voleva mettere fine ad una legislazione nata sulla spinta dell’emergenza abitativa del dopoguerra. Procedure quanto mai frettolose ed un rapporto diretto tra il comune, fin da allora soggetto principe di ogni disegno urbanistico, ed i vertici dello Stato. L’interruzione della legislatura ed una campagna stampa volta ad impaurire le forze di governo, accusati di voler sopprimere il diritto di proprietà della casa, fecero il resto. La riforma rimase lettera morte e Sullo estromesso da quel ministero.
Da quel momento una sorta di maledizione ha colpito tentativi più o meno convinti di riprendere il discorso. Invece si è andati avanti a spizzichi e bocconi, sebbene la Ricostruzione in Italia fosse completata e la nascita delle Regioni avesse rotto il legame preferenziale che univa il singolo Comune agli apparati del Governo centrale. Si pensò invece a provvedimenti che, in qualche modo, potessero sanare le conseguenze del mancato controllo del territorio. Ed allora ecco i condoni. Per far cassa: certamente; ma anche per conciliare stato di fatto e stato di diritto. Un susseguirsi di interventi legislativi, con una cadenza di 9 anni: legge 47/1985; legge 724/1994; decreto legge 326/2003.
Ma siccome al peggio non c’è mai fine: ad una legislazione che già aveva suscitato le rampogne dei ben pensanti, seguì la stagione dei bonus. Da quello per la cura del verde, con una detrazione fiscale del 36%, a quello “facciate” la cui detrazione era partita dal 90%, per poi ridursi al 60. Dal bonus caldaie (50% del relativo costo) a quello “ristrutturazione” inizialmente al 36%, poi elevato al 50, con un limite massimo di spesa pari a 96 mila euro. Per giungere alla madre di tutte le battaglie il super bonus del 110%, che ha definitivamente scassato ogni equilibrio di bilancio. A sua volta accompagnato dal bonus per le barriere architettoniche pari al 75% del relativo costo ed dal sisma bonus, con ulteriori detrazioni fino all’80%.
In apparenza grande attenzione al comparto edilizio. Mentre il disordine urbanistico era destinato ad aumentare. Ma soprattutto la risposta semplice ad un problema ben più complesso. La casa per gli italiani non è solo un bene che garantisce loro una sicurezza evidente. Tant’è che per generazioni avere un proprio focolare è stata una scelta di vita. È anche un asset: ossia un valore, come lo sono i titoli posseduti, o i depositi bancari. Se i prezzi delle case tendono a crescere, si produce ciò che gli economisti chiamano “effetto ricchezza”. Vale a dire un aumento del valore del proprio patrimonio. Integrazione che dà benessere e quindi contribuisce positivamente allo sviluppo complessivo.
Quel surplus finanziario, infatti, può essere speso o investito, contribuendo in entrambi i casi alla crescita del Pil. Sennonché la valorizzazione degli immobili può avvenire anche con modalità alternative. Tra queste l’urbanistica è una leva potente. La riqualificazione degli spazi o la rigenerazione urbana non solo crea un ambiente più confortevole, ma proprio per questo fa aumentare la domanda spingendo verso l’alto i relativi prezzi. Che, a loro volta, hanno un effetto duplice: favoriscono i proprietari di casa, ma danneggiano possibili acquirenti o affittuari, costretti a sborsare una cifra maggiore per il possesso dell’agognato bene.
Se poi l’intervento avviene con le modalità viste per Milano, allora il corto circuito diventa quasi inevitabile. Le opere progettate, dietro la foglia di fico della rigenerazione urbana, hanno determinato contraccolpi destinati a sconvolgere equilibri da tempo consolidati. L’intervento massiccio del capitale straniero – dal Qatar alla Svizzera – le tipologie progettuali scelte (non la risistemazione migliorativa dell’esistente, ma grattacieli – lo skyline – alti centinaia di metri) hanno creato trasformazioni morfologiche imponenti, che andavano armonizzate con il resto della città: se non un nuovo piano regolatore, qualcosa di molto simile. Cosa che, invece, non è avvenuto.
Una critica destinata a mortificare la voglia di futuro di Milano? Il voler distruggere nella culla il sogno di una città globale? Più semplicemente: un passo troppo lungo rispetto alla propria gamba. Il modello urbano che traspare da quegli interventi non è europeo, e forse nemmeno occidentale. Somiglia molto di più a quello di Sciangai o di Saigon: un susseguirsi di “normali” vecchie abitazione delle epoche passate sulle quali, nel modo più disordinato possibile, svettano grattaceli giganteschi. Nulla a che vedere con Parigi, dove esiste un interno quartiere, composto da grattaceli, (la Defense) ma ai margini dal centro città o Londra che può vantare una decina di queste costruzioni, ma in un territorio che è quasi 9 volte quello di Milano: 1572 kmq contro 181 . Nè fa testo il caso di New York. Anche qui lo skyline si concentra soprattutto nell’isola di Manhattan che è il cuore della “grande mela”.
In Italia esistevano dei vincoli legislativi destinati ad impedire una simile avventura. Vincoli che datavano dal 1942 è mai rimossi. Salvo l’ultimo rabberciato tentativo del “Salva Milano”. Finito come doveva finire. Quel vincolo costruttivo era rappresentato dall’articolo 41 quiequies precedentemente richiamato. Che prevedeva che, nelle migliori delle ipotesi “il volume complessivo costruito di ciascun fabbricato non” potesse “superare la misura di un metro cubo e mezzo per ogni metro quadrato di area edificabile”. Linguaggio non troppo chiaro. Significava che per poter avere un appartamento di 50 mq, pari a 150 metri cubi, bisognava avere a disposizione un area di 10 mq. E che “comunque gli edifici non” potevano “comprendere più di tre piani”.
Amministratori pubblici, professionisti, faccendieri ed imprenditori hanno volutamente ignorato questi limiti, dando inizio all’apertura di cantieri. Difficile capire perché non si siano messi al sicuro prima di partire. Temevano forse, come nei tempi antichi, di perdere il vento. Ma il rischio sottovalutato era elevato. Come risulta evidente dalla tempesta che si è appena scatenata.