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Perché l’era di Zingaretti alla Regione Lazio è stata un flop

Regione Lazio: l'era Zingaretti analizzata da Gianfranco Polillo.

 

La prossima tornata elettorale, per gli abitanti del Lazio, avrà un’importanza particolare. Alle loro spalle c’è un lungo ciclo politico, che ha pochi eguali nella storia nazionale. Se si esclude il Veneto, regno di Luca Zaia, al suo terzo incarico (unico caso in Italia) subito dopo viene Nicola Zingaretti: governatore della seconda regione d’Italia. Quasi 10 anni, dal 2013 al 2022, vissuti nella più assoluta continuità. Diverse lunghezze avanti rispetto ai suoi più diretti inseguitori: Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. Rispettivamente presidente della Campania e della Puglia, ma entrambi in carica solo dal 2015.

IL LUNGO REGNO DEL PD

In questo lungo periodo, la concentrazione di potere è stata significativa. A differenza delle altre regioni, gestite da politici pure importanti, ma con una caratura prevalentemente locale, il Lazio è stato, invece, diretto da un dirigente nazionale del PD. Che tale è stato non solo durante la reggenza del partito, come segretario generale. Nel lungo curriculum di Nicola Zingaretti, il suo ruolo di dirigente nazionale è stato una costante, fin dai tempi in cui era, non ancora trentenne, segretario della sinistra giovanile. Per poi divenire Presidente dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista. Quindi responsabile delle Relazioni Internazionali presso la Direzione Nazionale dei Democratici di Sinistra. Prima di assumere la carica di segretario del partito romano ed infine deputato europeo. Ma subito Capo delegazione a Strasburgo dei Democratici di Sinistra ed infine Segretario regionale del PD laziale.

Nello stesso periodo in cui era Presidente della Regione Lazio, il Governo nazionale era predominio del PD. Nell’ordine: Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. Subito dopo il breve intervallo del Governo giallo – verde, il Conte II e la nuova maggioranza giallo – rossa. Al cui successo lo stesso Zingaretti aveva contribuito, con un pizzico di furbizia, facendo credere a Matteo Salvini ch’era disposto a seguirlo lungo la strada scivolosa delle elezioni anticipate. Fino a giungere alla Presidenza di Mario Draghi, che fu, tuttavia, conseguenza dell’iniziativa di Matteo Renzi: ormai divenuto l’arci-nemico della nomenclatura democrat.

Il pur breve accenno a questi episodi dimostra che, durante quel periodo, esistevano le migliori condizioni politiche per contribuire allo sviluppo della seconda regione italiana, per dimensione territoriale e numero di abitanti. Occorreva solo avere visione e la capacità di perseguire, con tenacia, un disegno riformatore. Puntando, tra l’altro, a valorizzare il rapporto con Roma, non solo Capitale d’Italia, ma la città più grande – otto volte Milano – dell’intera realtà nazionale. Unica condizione: rispettare quel vincolo costituzionale in cui si accenna alla necessità della “leale collaborazione tra i vari organi ed istituzioni dello Stato”. Ed, invece, nelle migliori delle ipotesi, fu indifferenza con lo Stato centrale ed aperto contrasto con la sua Capitale.

LA CRISI DEL LAZIO IN NUMERI

Sono, purtroppo, i numeri a certificare un doppio fallimento. Roma che degrada sempre più verso una deriva levantina. Il Lazio che subisce i contraccolpi più duri di una crisi di carattere generale. Ed alla quale non è in grado di contrapporsi. I dati, da questo punto di vista, sono impietosi. Secondo la Cgia di Mestre il Lazio, dopo la Sicilia, è la regione italiana che nel 2023 avrà il maggior numero di disoccupati: si prevede un incremento di 12.665 unità (dalle 203.873 del 2022 alle 216.538 del prossimo anno) con una crescita degli inoccupati del 6,2%. Semplici previsioni: si dirà. Ma vi sono dati meno opinabili.

In tutti questi anni (dal 2013 al 2021) il Lazio è cresciuto meno del resto dell’Italia. Il Pil pro capite è infatti aumentato solo di 2.000 euro, contro un aumento medio nazionale di 2.200. In Lombardia l’aumento è stato di 2.300 euro, per cui le distanze tra le due realtà, invece di diminuire, sono aumentate. Con un divario, tutto nordista, che si avvicina al 15 per cento. Ma non è nemmeno questo l’aspetto più preoccupante. Sono gli andamenti demografici a rappresentare la spia di un malessere più profondo, al quale non sarà facile porre rimedio. Nel periodo considerato, per la verità, tutta l’Italia si è fermata. La popolazione residente è infatti diminuita di oltre 1 milione e mezzo di abitanti: pari al 2,5 per cento della popolazione del 2013.

Nel Lazio la perdita è stata leggermente maggiore (2,6 per cento), mentre la Lombardia ha fatto decisamente meglio. La sua popolazione è rimasta pressoché stazionaria, con una perdita contenuta in un modesto 0,3 per cento. Il che la dice lunga sullo stato di attrattiva di queste diverse realtà nazionali. C’è solo da aggiungere che il Lazio è stretto in una morsa. Sovrastato dalla Lombardia, premuto dal basso dalla Campania. Gli indici più recenti ne mostrano una perdita di peso specifico, sia in termini di sviluppo che di popolazione. Nel 2021, secondo l’Istat, il Pil regionale, in termini reali, nel Lazio era ancora inferiore di 4 punti ai livelli del 2019, mentre in Campania la differenza era di soli 3 punti. Ancora più sorprendenti i dati demografici. Nel 2021 il Lazio perde ancora 15 mila abitanti. La Campania ne acquista 160.

Che rimane quindi della lunga gestione di Zingaretti? Soprattutto un carico fiscale che sia a livello regionale che per alcune realtà, come Roma, non ha confronti con il resto del Paese. Le addizionali Irpef, in regione, solo le più alte a livello nazionale, fino ad arrivare al 3,33 per cento dell’imponibile. Quando in Lombardia la percentuale massima è del’1,74 per cento: quasi la metà. Stessa storia per Roma. Anche in questo caso siamo al massimo 0,9 per cento. Contro lo 0,8 di Milano. Mentre per l’Imu sulle seconde case, Roma batte tutti, secondo la denuncia – inchiesta de il sole dello scorso dicembre.

Si può quindi dire che quell’enorme concentrazione di potere nel rimpallo “regione – Stato centrale”, con l’aggiunta di Roma Capitale, non abbia prodotto (eufemismo!) i risultati sperati. Ci potrà forse riuscire Alessio D’Amato, candidato alla Presidenza per conto dei Pd? I dubbi sono più che legittimi, considerando il mutato contesto nazionale. E non solo. Purtroppo ognuno è prigioniero della propria storia personale e quella del neo candidato non fa eccezione. Quando era militante del PDS rifiutò la svolta di Achille Occhetto, preferendo il vecchio comunismo di Armando Cossutta. Fu quindi seguace di Oliviero Diliberto ed infine di Fausto Bertinotti.

Non sorprende pertanto la sua sua proposta più recente: il “pastrocchio” (copyright di Carlo Calenda) con i 5 stelle. Semplice voglia di vincere o qualcosa di più? Ma al di là di tutto ciò, la sua eventuale vittoria potrà garantire quella discontinuità di cui il Lazio ha un disperato bisogno? Questo è l’interrogativo di fondo. Al suo attivo è indubbiamente la gestione della sanità durante la pandemia. L’applicazione del “modello israeliano” fu indubbiamente una scelta azzeccata. Ma poi vi fu l’episodio Spallanzani. La consegna a quella delegazione russa, che scarrozzava per l’Italia bandiere della Federazione al vento, durante il Conte II, dei vetrini con il genoma del Covid – 19. Necessari per giungere alla produzione del loro vaccino: lo sputnik. Poi rilevatosi tutt’altro che competitivo.

In quel caso la linea di comando “Conte – Zingaretti – D’Amato” risultò determinante ai fini del successo di quell’operazione. Successo per i russi, la cui delegazione piena zeppa di militari, doveva fin da allora impensierire. Ed invece fu consentito loro una fruttuosa passeggiata, che collocò l’Italia in una posizione estremamente ambigua. Poi risolta per fortuna, solo grazie a Mario Draghi, una volta divenuto Presidente del consiglio, che riportò la politica estera italiana nel solco della tradizione occidentale. Un momento prima che Vladimir Putin invadesse l’Ucraina.

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