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Cosa farà il Pd in caso di vittoria di Fratelli d’Italia?

I sondaggi che vedono in testa Fratelli d'Italia e al secondo posto il Pd, il caso Tambroni e le prospettive politiche. L'analisi di Gianfranco Polillo fra storia, cronaca e scenari

 

Cosa farà il PD di Enrico Letta, qualora Giorgia Meloni, come sembrerebbe dai sondaggi, dovesse vincere le elezioni? Accetterebbe il risultato senza profferire parola, ma con il proposito di portare avanti un’opposizione democratica? Soluzione auspicabile. Avvenimento che, finalmente, metterebbe e fine a quel “sovraccarico etico a ostruire le menti” (Angelo Panebianco) che ha caratterizzato settanta anni di storia nazionale. La quale, come ricordava Ernesto Galli della Loggia, “non può” continuare a “essere la prigione del nostro futuro”. Un Italia, quindi, finalmente liberata dai propri incubi. Capace di misurarsi con i drammatici problemi del domani. Piuttosto che insistere sulle buone ragioni dei vincitori e sui cattivi torti dei vinti.

Una seconda ipotesi potrebbe essere quella di imitare Donald Trump. Non certo invitando i militanti a dare l’assalto del Palazzo d’inverno. Ma contestando, in nome di un antifascismo militante, la legittimità di quella vittoria. Invocando ogni possibile pretesto, per giustificare il gran rifiuto. Consapevole di essere comunque nel giusto e di camminare con le gambe della storia. Qualcosa che già si è verificato nelle vicende italiane. Sebbene, allora, i tempi fossero troppo ravvicinati rispetto alla nascita del nuovo Stato democratico, che non era stato certo il frutto di una semplice evoluzione, ma il parto di eventi drammatici, segnati da lutti, sofferenze, eroismi e viltà: i mille episodi di una Resistenza, ch’era stata anche guerra civile.

L’allusione è ai fatti del 1960, che portarono alla caduta del Governo Tambroni e, di fatto, all’apertura di una nuova fase nella vita politica del Paese. Anche allora la spinta fu quella dell’antifascismo militante. Si voleva impedire che il MSI tenesse a Genova il suo sesto congresso nazionale. Una scusa, visto che quattro anni prima, la stessa manifestazione si era svolta a Milano, senza alcun incidente. E sia Genova che Milano erano entrambe città alle quali era stata conferita la medaglia d’oro della Resistenza. Nei propositi di svolgere il congresso a Genova non si intravedeva quindi nessun delitto di lesa maestà.

Ed invece al primo annuncio del 14 maggio 1960, la sinistra organizzò un mese e mezzo di mobilitazione politica. Continue manifestazioni in città, e, per solidarietà, in altri capoluoghi (Roma, Torino, Milano, Livorno e Ferrara), con scontri continui, non solo con i militanti di destra. Ma soprattutto con le forze dell’ordine. Cortei che incitavano alla mobilitazione. Scioperi generali indetti dalla Camera del lavoro. I fuochi accesi sulle colline intorno alla stessa città ligure, come monito. I vecchi partigiani ch’erano tornati in montagna: pronti a combattere una nuova battaglia contro la reazione.

Lo scontro più duro con le forze dell’ordine si ebbe il 30 giugno, al termine della manifestazione indetta un paio di giorni prima l’apertura dei lavori. Inizialmente pacifica, degenerò sul finale, quando una parte del corteo, invece di sciogliersi, si scontrò duramente con la polizia, in tenuta antisommossa, a Piazza de Ferrari. E fu subito guerriglia urbana, con feriti da ambo le parti e gli abitanti dei vicoli prospicienti che non esitarono a lanciare, dalle proprie abitazioni, ogni possibile oggetto in difesa dei rivoltosi.

Al fine di evitare ulteriori possibili incidenti, la direzione politica dell’MSI decise di rinunciare ai propositi iniziali, rinviando il congresso a data da destinarsi. Per gli antifascisti, quindi, un’indubbia vittoria, che non pose tuttavia fine alle manifestazioni. Al contrario, queste ultime divennero ancora più violente estendendosi in diverse città d’Italia: da Licata, in Sicilia, a Milano, passando per Roma. Quindi a Reggio Emilia, dove si contarono i primi morti, caduti sotto il fuoco della polizia. Poi a Palermo, Catania e Firenze. Alla fine i morti, tra i manifestanti, furono decine. Memorabile rimase la manifestazione di Roma, con le truppe a cavallo dei carabinieri, scatenate contro i manifestanti. A loro volta assistiti da folte delegazioni di parlamentari.

Terminò tutto, più o meno, il 19 luglio con le dimissioni del Governo Tambroni che poi era il vero obiettivo di quelle manifestazioni. Altro che Resistenza tradita dalla presenza, a Genova, degli eredi delle camice nere. Il calcolo politico era stato di tutt’altra natura. Il centrismo, vale a dire quell’alleanza centrata sulla forza della DC, avendo come alleati liberali, socialdemocratici e repubblicani, in piedi fin dal 1948, aveva ormai esaurito ogni “forza propulsiva”. Nei mesi precedenti, il MSI si era, in qualche modo già inserito nel gioco parlamentare. Aveva, ad esempio, contribuito ad appoggiare, insieme ai monarchici, ed i liberali, il monocolore presieduto da Antonio Segni (15 febbraio 1959 – 23 marzo 1960).

Lo stesso Governo di Ferdinando Tambroni, incaricato subito dopo da Giovanni Gronchi, era costituito da un monocolore DC (contrario mezzo partito), sostenuto, nella prima votazione alla Camera dei deputati, dai voti dell’MSI: 300 a favore e 293 contrari. L’inizio di una slavina. Conosciuto l’esito della votazione i primi a dimettersi furono i tre ministri della sinistra DC: Sullo, Bo e Pastore. (Qualcosa di analogo si verificherà anni dopo a seguito di un voto parlamentare a favore di Bettino Craxi) Ma ben altri sette si dichiarano pronti a seguire l’esempio dei loro colleghi.

Di fronte a questa levata di scudi, il Presidente Gronchi si rivolse ad Amintore Fanfani, il cui tentativo, sebbene i socialisti avessero manifestato una cauta apertura, non andò a buon fine. Fu quindi gioco forza rinviare il Governo Tambroni, che già aveva ottenuto la fiducia alla Camera, al Senato. Dove raccolse 128 voti a favore e 110 contrari. I voti missini risultarono ancora una volta determinanti. Era il 29 aprile 1960. Nemmeno 15 giorni dopo il segretario del MSI, Arturo Michelini, lancerà la proposta di convocare il congresso a Genova.

Fu un errore? Una forte sottovalutazione del clima politico italiano? Per la verità il MSI, era già pienamente inserito nella vicenda politica italiana. Aveva fatto parte di numerose giunte a livello locale, in alleanza con la DC e contro la sinistra. In Sicilia, poi aveva partecipato alla cosiddetta “operazione Milazzo”, dal nome del presidente della Regione, Silvio Milazzo, che fu eletto grazie al convergere dei voti del PCI e dell’MSI, contro il candidato ufficiale della DC, che era, invece, Giuseppe La Loggia. Operazione avallata dai vertici del partito (Togliatti in testa) in nome dell’autonomismo siciliano. Esperimento che, seppure con alterne vicende, si protrasse per un certo numero di anni. A dimostrazione di quanto l’antifascismo, fosse poi una veste da indossare solo durante le feste comandate.

Prima della nascita del governo Tambroni, erano, comunque, già iniziate le grandi manovre che avrebbero posto fine all’esperimento centrista, per dare luogo, negli anni successivi, alla nascita del centro sinistra. I fatti di Genova rappresentarono, a loro volta, l’elemento fondante della teoria del cosiddetto “arco costituzionale”. L’esclusione della destra da ogni possibile alleanza di governo, per dare legittimazione democratica ad un PCI, che continuava ad essere la quinta colonna di Mosca nella società italiana. Ebbene, se si guarda alla realtà di oggi, alcune analogie risultano evidenti. Certo un Ferdinando Tambroni, la cui coerenza politica era comunque fuori discussione, non è più all’orizzonte. In compenso abbiamo visto la successione Conte I – Conte II. Lo stesso personaggio capace di dirigere due opposte maggioranze alternative. La dimostrazione di quanto possa essere precario un vecchio equilibrio politico, che le prossime elezioni rischiano, ancora una volta, di spazzar via.

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