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Tunisia

Vi spiego la vera anomalia di Giuseppe Conte

Le tensioni della maggioranza di governo - innescate non solo da Renzi ma anche del Pd - non riguardano soltanto il Recovery Plan o la delega ai Servizi segreti tenuta da Conte. A pensare c'è una questione politica legata al nuovo ruolo di Conte. Ecco quale nell'analisi di Gianfranco Polillo

C’è un aspetto (uno dei tanti) di questa crisi che, almeno finora, non ha avuto l’attenzione che merita. Il quesito riguarda proprio Giuseppe Conte. Qual è il suo ruolo in questa vicenda? È solo il presidente del Consiglio pro-tempore attaccato, come un’ostrica, alla sedia di Palazzo Chigi o qualcosa di diverso? Naturalmente già la prima ipotesi sarebbe più che plausibile. Il triplo salto mortale di un avvocato di provincia che sale in un battibaleno tutte le scale dell’Olimpo e diventa premier del proprio Paese non è cosa che capiti tutti i giorni. Si comprende allora la determinazione a rimanere, compiendo ogni possibile capriola.

C’è da dire, inoltre, che Giuseppe Conte quella sua vocazione non l’aveva mai nascosta. Si ripensi alla storia di quel curriculum, sbandierato come se stesse partecipando ad un pubblico concorso. Che bisogno c’era di indicare cose che potevano, poi, essere facilmente smentite? Nessuna. Ma così è stato. E se lo sbugiardamento è stato senza conseguenze, questo fu dovuto solo alla difficoltà di una trattativa che vedeva implicate due forze politiche (i 5 stelle e la Lega) che avevano ben poco in comune. E che potevano stare insieme solo dopo la firma di un vero e proprio “contratto”. Di cui l’”avvocato del popolo”, diventava il garante. Altro che articolo 95 della Costituzione.

La prima fase della metamorfosi coincise con il cambio di maggioranza: via la Lega, dentro il Pd, Leu e Italia Viva. Le redini dell’Esecutivo sempre in mano al vecchio premier. Con l’aggiunta, fin da allora, di un pizzico di potere in più: la delega sui Servizi segreti, rimasta nelle mani dell’inquilino di Palazzo Chigi. Facile spiegare il perché. Matteo Salvini aveva avuto il Viminale e quindi il controllo della Polizia di Stato, alla Difesa era andata Elisabetta Trenta, di rito grillino, ma solo fino ad un certo punto, con in dote l’arma dei Carabinieri; mentre la Guardia di finanza era appannaggio di Giovanni Tria, l’alieno che abitava le stanze di Via XX Settembre. Era quindi difficile squilibrare ulteriormente la bilancia del potere, attribuendo ad altri la delega sui servizi segreti.

Logica che, nel Conte due, era meno giustificata. Vero che ora alla Difesa e all’Economia sono Lorenzo Guerini e Roberto Gualtieri: entrambi Pd. Mentre agli Interni Luciana Lamorgese: figlia di prefetti ed essa stessa prefetto della Repubblica. Ma trattenere su di sé la delega ai servizi presentava due inconvenienti. Dimostrava che il presidente del Consiglio era sempre più esponente politico dei 5 stelle, nel bilanciamento del potere con le altre forze della maggioranza. Rappresentava una novità rilevante rispetto al passato. Dal varo della legge che aveva riorganizzato la materia (legge 124/2007), tutti i presidenti del Consiglio in carica – da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, passando per Mario Monti – avevano delegato ad altri un compito così delicato ed altrettanto gravoso.

E in effetti, con la nuova maggioranza giallo rossa, Giuseppe Conte cessa di essere il semplice mediatore tra i suoi due potenti vice (Salvini e Di Maio) per assumere sempre più il piglio di un Presidente decisionista. Come risulterà evidente dal progressivo prevalere dell’attività amministrativa, orientata da palazzo Chigi, su quella legislativa. Si pensi non solo alla sfilza del Dpcm, o alla stesura delle varie bozze del Recovery Plan. Per non parlare dell’ultima ciliegina sulla torta. Il Parlamento che viene espropriato di un suo diritto costituzionale: qual è l’esame e l’approvazione della legge di bilancio. Con il Senato, costretto a votare, a scatola chiusa il provvedimento licenziato dalla Camera, onde evitare lo spauracchio dell’esercizio provvisorio. Vicenda destinata a rendere evidente i cambiamenti intervenuti con il trascorrere del tempo.

Bisogna partire da qui, per capire le reazioni di Matteo Renzi. Forse il primo a cogliere il senso di quelle trasformazioni: da semplice avvocato, giunto miracolosamente alla politica in uno degli scranni più alti ch’essa può offrire, Giuseppe Conte era diventato il leader vero dei 5 stelle. E come tale poteva e doveva essere sfidato, né più né meno come in passato – si pensi al rapporto tra De Mita e Craxi – avveniva nella Prima Repubblica. Le cui caratteristiche, con il ritorno al proporzionalismo, sembrano sempre più condizionare gli assetti politici futuri del Paese.

Ed ecco allora la risposta alla domanda iniziale. I fatti stanno a dimostrare che quella metamorfosi è ormai completata. Non abbiamo una farfalla, ma un personaggio che ha riempito il vuoto lasciato da Beppe Grillo e Davide Casaleggio. È Conte, il leader di partito, che tratta con gli altri leader della coalizione. Non è certo Vito Crimi: più un amministratore che non un condottiero, ma nemmeno Luigi Di Maio. Il più improbabile ministro degli Esteri della Repubblica italiana sembra non aver voce in capitolo in questa crisi. Può, al più, tentare di stigmatizzare i comportamenti altrui. Far appello al senso di responsabilità. Aggrapparsi alle parole del presidente della Repubblica: quel Mattarella che solo qualche mese fa voleva denunciare per attentato alla Costituzione. Ma niente di più.

È la crisi più nera, ma anche il punto di approdo nel segno della totale normalizzazione di un movimento che sembra aver esaurito da tempo ogni “forza propulsiva”. Da questo punto di vista i sondaggi ne sono incomoda testimonianza. Resta solo da capire cosa vuol fare Nicola Zingaretti. Il principale partito della coalizione di maggioranza può rimanere afono, lasciando tutto il peso della sfida nelle mani di Matteo Renzi? Ci potrebbe pure stare se l’Italia vivesse una condizione di normalità. Ma di fronte ad una crisi che è ben peggiore di quella del 2007 ci vorrebbe altro. Come minimo, un’assunzione di responsabilità nel tracciare una rotta, che almeno tenti di evitare il disastro finale.

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