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Migranti

Vi spiego la tempesta politica e giudiziaria sulla Nave Diciotti

I Graffi di Damato sull’epilogo del blocco dei migranti sul pattugliatore della Guardia Costiera, Nave Diciotti, ancorato a Catania. Sergio Mattarella, esposto anche al maestrale che batte forte, mentre scrivo, sull’Ammiragliato della Maddalena che l’ospita in vacanza, si sarà messo le mani fra i capelli – come presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della…

Sergio Mattarella, esposto anche al maestrale che batte forte, mentre scrivo, sull’Ammiragliato della Maddalena che l’ospita in vacanza, si sarà messo le mani fra i capelli – come presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura – di fronte all’epilogo umanitariamente felice ma politicamente drammatico del blocco dei migranti sul pattugliatore della Guardia Costiera ancorato a Catania.

Il blocco, in verità, è finito e i quasi duecento migranti iniziali, già ridotti di numero per lo sbarco prima dei minorenni senza accompagnamento e poi dei più malandati in salute, hanno ottenuto una destinazione fra la Chiesa italiana in grande maggioranza, l’Albania e l’Irlanda grazie al lavoro svolto dietro le quinte dal governo con la regìa del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che però si è guadagnato nel frattempo, insieme col suo capo di Gabinetto al Viminale, l’iscrizione nel registro degli indagati ad Agrigento per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. Mancano per fortuna i reati di rapina e, in assenza di morti, di omicidio colposo.

Nel momento stesso in cui ha indagato Salvini e il suo principale collaboratore al Ministero dell’Interno, però, il capo della Procura di Agrigento Luigi Patronaggio, reduce da una missione di lavoro a Roma per interrogare funzionari del Viminale, ha dovuto spogliarsi delle indagini e trasmettere il fascicolo a Palermo. Dove scattano le competenze e procedure del tribunale dei ministri, istituito in ogni distretto di corte d’Appello nel 1989 per giudicare i reati ministeriali, sino ad allora giudicabili dalla Corte Costituzionale.

Il tribunale dei ministri di Palermo, come tutti gli altri in Italia, è composto di tre giudici effettivi e tre supplenti, sorteggiati ogni due anni fra tutti i magistrati del distretto giudiziario, il più alto dei quali in grado o il più anziano, in caso di parità, ne assume la presidenza.

Entro 90 giorni dalla ricezione degli atti, sentiti gli indagati con la collaborazione della Procura ordinaria, il tribunale dei ministri potrà decidere l’archiviazione del fascicolo, salvo ulteriori accertamenti richiesti dalla Procura, o trasmettere gli atti al Parlamento. In questo caso la destinazione sarebbe il Senato, cui Salvini appartiene. E dove, col passaggio attraverso la competente giunta, si potrà negare o concedere l’autorizzazione al processo ordinario con la maggioranza assoluta dei voti, cioè dei componenti l’assemblea. E’ una maggioranza della quale ogni governo dovrebbe disporre sulla carta per nascere e sopravvivere, anche se ad ottenere o a perdere la fiducia basterebbe la maggiorana semplice: quella cioè dei partecipanti alla votazione.

Da questa sommaria descrizione di fatti e ipotesi risulta evidente una cosa che costituisce l’aspetto politicamente drammatico della vicenda, anche se conforme, per carità, alle norme costituzionali e ordinarie in vigore: l’assunzione, di fatto, del ruolo di opposizione al governo da parte della magistratura. Lo prova la scomparsa dalle prime pagine di tutti i giornali delle voci delle opposizioni politiche, per cercare le quali bisogna spingersi nelle pagine interne, trovandole spesso in forma così modesta da sfuggire a prima vista.

L’associazione nazionale dei magistrati non vuole sentirselo dire né dall’ultimo dei cronisti o osservatori politici né da Salvini. Che ha reagito all’iniziativa giudiziaria gridando “vergogna”, dopo avere scavalcato le transenne della manifestazione di partito che l’ospitava, e sfidando i magistrati ad arrestarlo, pur nella consapevolezza che questo non potrà almeno per ora accadere. E ciò sia perché non sarà possibile senza l’autorizzazione del Senato, essendo Salvini parlamentare, sia perché da indagato presso il tribunale dei ministri l’arresto sarebbe possibile solo in flagranza di reato. Che è una circostanza alla quale il ministro dell’Interno si è sottratto nel momento in cui, raggiunti gli accordi con i vescovi italiani, con l’Albania e l’Irlanda, ha voluto e potuto disporre lo sgombero degli immigrati dal pattugliatore della Guardia Costiera, che li aveva raccolti in mare tra Malta e Lampedusa e trattenuti a bordo a Catania in attesa della loro ripartizione fra più paesi o entità, com’è appunto avvenuto.

Nel lanciare la sua sfida ai magistrati, di fatto subentrati -ripeto- alle opposizioni politiche, parlamentari, sindacali, associative e di ogni altro tipo non giudiziario, Salvini si è appellato ai “60 milioni di italiani”, che esigono e meritano “la difesa dei confini” e la salvaguardia delle condizioni di sicurezza, non potendogli evidentemente bastare i 5 milioni 691 mila e rotti connazionali che hanno votato per la Lega nelle elezioni del 4 marzo scorso, pari al 17,37 per cento. Che è una quota già aumentata nelle elezioni locali successive a quelle politiche e nei sondaggi, ma che potrebbe ulteriormente salire -vista l’aria che tira nel Paese- nelle elezioni della primavera dell’anno prossimo per il rinnovo del Parlamento europeo, o in quelle nazionali anticipate che dovessero sopraggiungere per una crisi di governo senz’altra soluzione che il ricorso alle urne.

Nel frattempo, oltre a cambiare il quadro o clima politico dell’Italia, dove sembra essere tornati alla fine della cosiddetta prima Repubblica, fra il 1992 e il 1993, quando a guidare o a condizionare l’opposizione politica fu la magistratura con le indagini milanesi contro il finanziamento illegale dei partiti e la corruzione che spesso l’accompagnava, è peggiorato in queste ore il quadro o clima dei rapporti fra il governo di turno a Roma e l’Unione Europea. Che, sottrattasi di fatto di fronte alla vicenda di Catania agli impegni tutti verbali di una qualche redistribuzione dei migranti approdati sulle coste italiane come confini meridionali dell’Europa, si è infilata pure lei in un vicolo senza uscita, col rischio di un blocco o di una riduzione drastica delle quote associative di uno dei paesi fondatori della comunità politica e monetaria del vecchio continente. E con tutto ciò che potrà seguirne: un altro dramma nel dramma. Che a Salvini però non sembra preoccupare più di tanto, vedendovi anzi l’occasione, forse, per una ridiscussione davvero delle regole che va reclamando da tempo, e non solo nella gestione del fenomeno migratorio.

A mettersi le mani fra i capelli, oltre a Mattarella, cominciano forse anche gli alleati di governo dei leghisti: i grillini. I cui blog -quello ufficiale del movimento e quello personale di Grillo- non a caso stanno ignorando o declassando gli sviluppi della vicenda catanese. E il cui capo politico, cioè il vice presidente del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, dopo avere avvertito per telefono Salvini di non “riuscire più a contenere i miei”, secondo versioni giornalistiche non smentite, ha dovuto tornare ad annacquare il giustizialismo tradizionale delle 5 Stelle.

In particolare, escludendo le dimissioni del suo collega di governo Di Maio ha dovuto smentire i suoi non lontani trascorsi di due anni fa, quando reclamò le dimissioni dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano perché raggiunto da un avviso di garanzia per abuso d’ufficio.

Omnia munda mundis, dicevano i latini quando erano convinti che tutto fosse puro per i puri, di turno.

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