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Vi spiego la guerra delle petroliere nello Stretto di Hormuz. L’analisi di Rafat

La guerra delle petroliere nello Stretto di Hormuz analizzata dal giornalista italo-iraniano Ahmad Rafat. L'approfondimento a cura di Marco Orioles

È stato un weekend ad altissima tensione, quello che si è aperto venerdì pomeriggio con le drammatiche notizie giunte dallo Stretto di Hormuz. Ma al di là del suo essere un fatto senza precedenti, capace di far convocare per ben due volte a Londra il comitato Cobra e di far schizzare istantaneamente in su il prezzo del greggio sui mercati, il sequestro di una petroliera britannica da parte dei Guardiani della Rivoluzione non può certo dirsi uno sviluppo inatteso.

Come ci spiega il giornalista italo-iraniano Ahmad Rafat che oggi, dopo una lunga carriera a Roma, è di stanza nella capitale britannica dove cura il giornale in lingua persiana Kayhan London, per ricostruire la genesi dell’ultima, clamorosa mossa dei pasdaran dobbiamo scorrere all’indietro il calendario e guardare a cosa è successo lo scorso 4 luglio a Gibilterra.

“Quel giorno – racconta Rafat – “al largo del territorio britannico sul Mediterraneo si trovava un supertanker iraniano, la Grace 1, che è stata oggetto di un blitz spettacolare dei Royal Marines i quali, agendo a quanto pare sulla base di una segnalazione degli Usa, si sono calati da un elicottero sul ponte della nave, che è stata poi posta messa a disposizione delle autorità di Gibilterra dietro l’accusa che stesse violando le sanzioni dell’Ue contro la Siria. La Grace 1 stava infatti trasportando due milioni di barili di petrolio verso una raffineria siriana che nel 2014 è stata posta sotto embargo dall’Europa”.

La reazione dell’Iran, ricorda Rafat, è stata furente, tra accuse di pirateria rivolte a Londra e la minaccia di una ritorsione “occhio per occhio, dente per dente” che si è materializzata pochi giorni dopo con un episodio che ha fatto elevare seduta stante il livello di allarme a Londra . “È successo infatti”, spiega il giornalista, “che unità navali veloci dei pasdran hanno tentato di sequestrare una petroliera britannica che stava attraversando lo stretto di Hormuz: un’azione fallita solo perché è intervenuta una nave da guerra britannica, la Montrose, che si è frapposta tra la petroliera e i barchini dei Guardiani, facendoli desistere”.

Cosa volessero ottenere i Guardiani con un’azione così audace è presto detto, secondo Rafat. “Il loro obiettivo”, puntualizza, “era catturare una petroliera britannica per costringere la Gran Bretagna ad uno scambio. È insomma la solita logica mediorientale del bazar”.

Se la logica è questa, con la mossa di venerdì Teheran sembra aver conseguito un primo risultato: adesso una petroliera britannica, la Stena Impero, è sotto sequestro in Iran. La possiamo considerare una vittoria? “Non direi”, è la risposta di Rafat. “Se guardiamo bene a come si sta sviluppando questa crisi, l’Iran si sta comportando come un leone ferito messo all’angolo che reagisce furiosamente. Cito solo un dato: l’istituto nazionale di statistiche ha appena pubblicato gli ultimi dati economici che mostrano come l’inflazione sia aumentata del 54%, con i generi di prima necessità che sono schizzati in alto con vette del 70%. Secondo molti economisti iraniani, se non si sblocca la situazione tra pochi mesi l’Iran sarà in ginocchio”.

Con le sanzioni americane che mordono sempre di più, e l’export petrolifero ridotto al lumicino, l’Iran è ormai alle corde. E con l’amministrazione Trump determinata a tirare diritto nella campagna di “massima pressione” concepita per metterla in ginocchio, e costringerla ad accettare un nuovo negoziato, a Teheran è rimasta sola una speranza: l’Europa e il suo “Instex”, lo special purpose vehicle approntato dall’Ue quest’inverno per continuare a commerciare con l’Iran aggirando le sanzioni Usa.

Secondo Rafat, tuttavia, sono speranze mal riposte. “L’Iran si illude di ottenere da Instex somme equivalenti all’export petrolifero. Pretenderebbe cioé di avere dai Paesi europei la stessa quantità di danaro che gli veniva dalle esportazioni di petrolio. Ma si tratta, appunto, di un’illusione. Di fatto, l’Iran sta chiedendo all’Europa di dare soldi all’Iran a babbo morto. Ma solo la Germania potrebbe essere in grado di mettere soldi in Instex così, senza avere nulla in cambio. Paesi come la Francia o l’Italia non sono certo nelle condizioni di fare simili donazioni”.

Ma se Instex è un guscio vuoto, che è peraltro pensato solo per i beni umanitari, perché l’Iran insiste così tanto? “Per un motivo molto semplice”, è la risposta del nostro interlocutore. “All’Iran basta che gli europei ci mettano i soldi. E, se ci sono i soldi, modi per riciclarli se ne trovano. Ricordo solo cosa faceva Saddam Hussein quando l’Iraq era sotto sanzioni e l’Onu varò il programma Oil for food. Saddam prendeva il cibo e lo rivendeva sottobanco a Paesi terzi e ne ricavava cash da usare come meglio credeva. Ora, bisogna tenere presente che l’Iran è uno dei maggiori esportatori di cibo del Medio Oriente. Se uno entra in qualsiasi bazar iracheno, vedrà che il 30-40% di tutti i prodotti alimentari in vendita viene dall’Iran. E questa è per l’Iran una fonte preziosa di denaro liquido. Ciò che serve all’Iran, ora, è una copertura europea”.

Che l’Europa si presti a questo gioco pare però una scommessa azzardata. Dovrebbe, infatti, sfidare frontalmente gli Usa e le loro sanzioni extraterritoriali, cosa che vorrebbe anche fare, ma non può. Ecco perché, per Rafat, l’Iran sembra avere poche chance di scansare la furia di Donald Trump e di scongiurare proprio ciò che non può permettersi, ossia accettare un nuovo negoziato con gli Usa.

Un dialogo che un uomo come la Guida Suprema Ali Khamenei non può che rifuggire con tutte le forze. Infatti, secondo Rafat, “quel che lui vuole prima di tutto è non fare la fine di Gheddafi, che scese a compromessi con l’Occidente salvo vedere pochi anni dopo gli aerei Nato bombardare il suo Paese e farlo fuori. Si tenga conto che Khamenei gode del consenso di uno zoccolo duro della popolazione, che possiamo stimare intorno al 10%. Ora, se lui fa marcia indietro davanti agli Usa e cala le braghe, accettando di negoziare, è finito. E con lui, finirebbe anche la Repubblica Islamica”.

Quando gli chiediamo di approfondire questa sua valutazione, Rafat ci rimanda alle conclusioni raggiunte dal gruppo di lavoro istituito presso il suo giornale, Kayhan London, al fine di esaminare le dodici condizioni poste mesi fa dal Segretario di Stato Usa Mike Pompeo per aprire una trattativa con l’Iran.

“Siamo giunti alla conclusione”, argomenta il giornalista, “che se l’Iran accetta solo quattro dei dodici punti – e quando dico quattro, intendo qualsiasi quattro delle dodici condizioni elencate da Pompeo –  la Repubblica islamica è finita. Se infatti l’Iran cessa di sostenere gruppi estremisti nella regione, smette di finanziare guerre nella regione, rinuncia al suo programma nucleare e a quello missilistico, perderebbe tutto il suo potere nella regione e non farebbe più paura a nessuno. E se si dimostra che l’Iran è debole all’esterno, all’interno la gente non avrebbe più paura del regime”.

Dietro la guerra delle petroliere nello stretto di Hormuz, e lo scontro in atto tra Usa e Iran in cui quella guerra si iscrive, si intravede insomma l’ombra di una sfida esistenziale per la Repubblica Islamica. Da questo momento in poi, ogni passo falso potrebbe decretare la fine dell’esperimento khomeinista. E sequestrare una petroliera britannica, da questo punto di vista, non pare un buon viatico per assicurarsi la sopravvivenza.

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