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Tunisia

Vi spiego la crisi economica e sociale della Tunisia

La Tunisia è oggi il Paese di partenza della maggior parte dei migranti che arrivano in Italia. Ma la crisi economica dello Stato nordafricano va avanti da dieci anni. Conversazione di Marco Orioles con Lorena Stella Martini, analista dell'Ecfr (European Council on Foreign Relations)

 

La crisi della Tunisia, Paese da cui oggi parte la maggior parte dei migranti che sbarca in Italia, è figlia di un malessere economico e sociale immutato rispetto alle condizioni che spinsero nel dicembre 2010 il venditore ambulante Mohammed Bouzizi a darsi fuoco con un gesto disperato che fu la miccia delle famose  primavere arabe.

È questa la conclusione cui giunge Lorena Stella Martini, analista dell’European Council on Foreign Relations, sede di Roma, al termine di un’articolata analisi sulla situazione di un Paese che l’Europa si sta impegnando a non far fallire pur dovendo fare i conti con l’amara realtà che, nell’era del presidente Saied, la Tunisia non può più essere definita una democrazia.

Gli sbarchi provenienti dalla Tunisia si sono moltiplicati. Come mai e perché proprio adesso?

Sì, è vero, gli sbarchi dalla Tunisia sono moltiplicati rispetto all’anno scorso; più della metà degli arrivi partono ormai dalla Tunisia. È importante però sottolineare un punto che non viene messo in evidenza dai media; e cioè che questi arrivi partono sì dalla Tunisia ma non sono in toto composti da tunisini. Le prime nazionalità di origine delle persone che sbarcano in Italia sono in realtà Guinea e Costa d’Avorio seguiti da Pakistan e Bangladesh: prima dunque abbiamo l’Africa subsahariana, poi l’Asia e solo dopo la Tunisia.

Quali sono le cause di questo esodo di massa?

Sicuramente hanno contribuito gli episodi delle ultime settimane e in particolare l’accrescersi della retorica contro i migranti subsahariani che abbiamo visto diffondersi in Tunisia dopo il discorso del presidente Saied che ha alluso a una sorta di complotto per far diventare la Tunisia un Paese solamente africano, minando l’identità etnica e culturale del Paese. Questi sviluppi hanno sicuramente contribuito ad accendere i riflettori sulla Tunisia nelle ultime settimane con proclami a mio parere un po’ eccessivi sulle dimensioni del fenomeno e sull’effettivo rischio circa cosa potrebbe succedere se la Tunisia andasse in bancarotta. Rischio che si sta cercando di evitare attraverso i contatti con le istituzioni finanziarie internazionali e con i tentativi di far concedere nuovi prestiti al Paese.

Quanto è preoccupante la situazione economica della Tunisia?

La situazione tunisina è sicuramente preoccupante da un punto di vista economico ma non da oggi. In realtà è da oltre dieci anni, ossia dai giorni della rivoluzione dei gelsomini, che la situazione economica non registra alcun miglioramento. Ricordo che le rivendicazioni fatte dalle piazze allora non erano solamente politiche ma anche economiche. Le richieste politiche sono state in parte esaudite con l’avvio di un processo di democratizzazione, che ha tuttavia subito negli ultimi due anni una involuzione. Ma dal punto di vista economico i problemi strutturali della Tunisia sono rimasti tali.

Quali sono questi problemi?

Quella tunisina è senz’altro un’economia stagnante con pochi investimenti sia dal punto di vista interno che estero, con un settore privato debole e con un comparto pubblico dilatato oltre misura anche per far fronte alla disoccupazione, con contraccolpi sulle spese statali e dunque sul debito. Si tratta oltretutto di un’economia su cui gravano gli ingenti flussi di importazione dei beni di prima necessità; e nel momento in cui i prezzi di beni come il grano e i cereali aumentano come è successo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e come era anche successo con la pandemia ne deriva una penuria soprattutto di beni alimentari. A ciò si aggiunge la battuta d’arresto provocata dal Covid al turismo, settore da sempre molto importante anche se va ricordato che lo è solo per una parte del Paese, perché del turismo beneficiano solo le regioni costiere e non l’interno del Paese, con una crescita delle disuguaglianze a livello economico e conseguentemente a livello sociale.

Possiamo provare a dare dei numeri?

Abbiamo anzitutto un’inflazione che è salita al livello massimo degli ultimi trent’anni e cioè al 10%. La disoccupazione è altissima e si attesta attorno al 15%, ma il dato secondo me più importante riguarda il tasso di disoccupazione giovanile, che nel II trimestre del 2022 ha toccato il 37%. E poi ovviamente c’è il debito pubblico che è arrivato ormai al 90% del Pil. Dunque senza aiuti internazionali la Tunisia non riuscirà ad andare avanti, al punto che non ha neanche i fondi per far funzionale la macchina amministrativa dello Stato. Da qui la necessità di negoziare un nuovo prestito con il Fondo monetario internazionale.

Prestito che però è bloccato dal dicembre dell’anno scorso. Perché?

Il problema è sempre lo stesso, ossia che questi prestiti hanno delle condizionalità che, nel caso specifico della Tunisia, riguardano le riforme economiche. In particolar modo quello che sta chiedendo l’Fmi è il risanamento delle imprese pubbliche, che è poi quello che stanno chiedendo anche Italia e Francia, il controllo dei salari del settore pubblico, una più efficiente riscossione delle tasse e dei tributi e soprattutto – e questa è la misura principe – il ridimensionamento dei sussidi, come ad esempio quelli su benzina e grano, da sostituire con aiuti alle famiglie che poi progressivamente verrebbero eliminati. Quest’ultimo aspetto preoccupa molto perché l’eliminazione dei sussidi rischia di suscitare proteste popolari e instabilità.

È vero però che senza questi fondi difficilmente la Tunisia potrà andare avanti. Conferma?

Certamente. Senza tali fondi si rischiano ulteriori penurie di cibo nel mercato tunisino perché mancano le risorse per pagare le forniture e, di rimando, si rischia anche l’ulteriore svalutazione del dinaro tunisino che poi porterebbe ad una maggiore inflazione. Va ricordato poi che senza questi prestiti resterebbero bloccati altri investimenti internazionali. Per esempio il Commissario Ue agli affari economici Paolo Gentiloni, andando qualche giorno fa in Tunisia, ha promesso ulteriori aiuti alla Tunisia ma solo in presenza di due condizioni: portare avanti in primo luogo le riforme economiche come chiesto dal Fmi e poi provvedere alla salvaguardia della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani, che nel corso degli ultimi due anni è stata messa a repentaglio dall’involuzione politica del Paese. La stessa Banca Mondiale ha sospeso alcune delle sue linee di assistenza verso la Tunisia a seguito dei passi indietro compiuti sul fronte della democrazia e soprattutto delle dichiarazioni di Saied sui migranti. Si pone allora, qui come in altri casi simili, il problema che potremmo sintetizzate con la metafora dell’uovo che viene prima della gallina o viceversa e cioè, aspettiamo che Saied realizzi le riforme economiche e politiche prima di concedere gli aiuti, oppure la situazione è talmente di emergenza che i soldi da iniettare nell’economia tunisina servono subito e aspettiamo poi le riforme? Una via di mezzo potrebbe essere quella proposta dall’Italia di erogare subito una prima tranche di aiuti per salvare il salvabile evitando il default e poi aspettare le riforme per dare le altre tranches.

A proposito di involuzione politica del Paese, lei concorda con la tesi secondo cui la Tunisia sia ormai una ex democrazia?

Diciamo che le definizioni in questo periodo si stanno moltiplicando. C’è chi non vuole parlare di ex democrazia e preferisce caratterizzare la situazione attuale come  un’involuzione della democrazia. A giudicare però da quello che è successo negli ultimi anni io personalmente non mi sento più di definire la Tunisia un Paese democratico. Ci sono state sicuramente delle elezioni e un referendum, ma non è questo che fa della Tunisia una democrazia, se consideriamo la spirale di autoritarismo subentrata da quando, nell’autunno del 2019, ha preso il potere Saied: possiamo ricordare il congelamento del Parlamento nell’estate del 2021 e pochi mesi fa l’approvazione della nuova costituzione che di fatto accentra i poteri nelle mani di Saied. Una costituzione che è stata scritta da una cerchia ristretta di persone fedeli a Saied, contrariamente a quanto era successo con la precedente costituzione approvata dopo la primavera araba che era il frutto di una consultazione dei vari attori della società civile e della politica. È vero che Saied è stato eletto democraticamente con il voto da una popolazione tunisina sfiduciata dal punto di vista economico e che voleva dare fiducia a una figura esterna al sistema come Saied che era di fatto un newcomer, ma nessuno si sarebbe aspettato quello che è successo poi.

In conclusione, cosa farebbe oggi Mohammed Bouzizi, ossia il famoso giovane venditore ambulante tunisino che nel dicembre 2010 si diede fuoco per protesta contro la sopraffazione delle autorità mettendo in moto quel movimento che abbiamo subito preso a definire come primavere arabe?

Se vogliamo vedere Bouzizi come simbolo della disperazione per la mancanza di opportunità dei giovani tunisini, vedo poca differenza rispetto alle condizioni in cui quel ragazzo viveva nel 2010. Diciamo che le condizioni che portarono Bouzizi a quel gesto restano immutate, perché la situazione sociale ed economica dei giovani tunisini rimane disperata, mentre permane la situazione di arbitrarietà e incertezza rispetto alla condotta delle forze di polizia, oltre alla corruzione dilagante. Tutti fattori che scatenarono la drammatica reazione di Bouzizi. Io penso quindi, conoscendo peraltro bene la storia di questo ragazzo, che oggi potrebbe ripetersi un gesto simile.

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