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Vi racconto Peppino Caldarola, il mio ex direttore all’Unità

"Ex comunista eretico, dotato di una forte autonomia e onestà intellettuale". Il ricordo di Peppino Caldarola firmato da Paola Sacchi

Erano quasi le cinque della sera del 19 gennaio 2000, avevo il giorno di riposo, dopo tre mesi che andavo e tornavo tra Roma e Tunisi-Hammamet, come inviato speciale per seguire gli ultimi mesi di Bettino Craxi.

Quel giorno il mio direttore, Peppino Caldarola, scomparso l’altro ieri a 74 anni, non avrebbe dovuto vedermi in redazione. Mi vide piombare all’improvviso trafelata nella sala della riunione, dove stava preparando con la squadra di vice e caporedattori l’ultima stesura del giornale.

Mi guardò sorpreso quando mi vide entrare senza salutare, interrompendo la riunione, per dirgli: “Direttore, è morto Craxi”. Peppino batté un pugno sul tavolo, gli occhi gli si inumidirono, un attimo di silenzio generale. Poi, “corri, scatenati”.

Nessuna agenzia di stampa aveva ancora battuto la notizia, l’Ansa arrivò una ventina di minuti dopo. Ma Peppino di me si fidava, non mi chiese neppure da chi lo avessi saputo. Io glielo dissi comunque: “Mi ha chiamato un attimo fa Emanuele Macaluso che è stato informato quasi in diretta da Rino Formica”. “Corri, Paola, siamo in chiusura, telefona a Stefania, Bobo”. Poi, chiamò la segretaria: “La Sacchi domattina deve prendere il primo aereo….”.

Il giornale fu ributtato giù tutto in un battibaleno e rifatto. Peppino era sinceramente commosso, io, amica di Bettino e dei Craxi, pure. Giornalista e amica, non so ancora come feci a fare una intervista molto intensa a Stefania in lacrime, che mi accolse al telefono con molta dolcezza. Ci eravamo lasciate solo poco più di un mese prima, dopo l’operazione ad alto rischio a suo padre all’Hopital Militaire di Tunisi. E costantemente ci eravamo risentiti al telefono con lei e con suo fratello Bobo per gli articoli che continuavo a fare da Roma.

Quella sera, Peppino: “Che ti ha detto Stefania?”. Gli dissi la frase più forte: “Lo hanno ammazzato”. Il mio direttore non esitò: “Questo è il titolo”. Ovvero, il titolo dell’intervista principale di quello che Craxi con me aveva definito al telefono dal suo letto d’ospedale: “Il giornale dei miei assassini, anche se tu sei una brava ragazza”.

Peppino sapeva che io nelle estati del ’97, ’98, ’99, durante il periodo delle mie vacanze, andavo in forma del tutto privata dall’ex premier e leader del Psi per cercare di realizzare un libro, di cui neppure avevo trovato ancora l’editore, sul perché naufragò l’unità a sinistra.

Sapeva che di Craxi e della sua famiglia ero diventata amica. Anche se io per correttezza professionale non lo informai mai di quello che era esclusivamente un mio avventuroso impegno personale. Che non coinvolse mai da nessun punto di vista il mio allora giornale.

Ma nell’ottobre del ’99, in una delle sere in cui le condizioni di Bettino iniziarono a peggiorare, dopo che aveva inviato in Tunisia un paio di colleghi di giudiziaria, con un approccio molto diverso dal mio, Caldarola mi convocò nel suo ufficio, al piano di sopra: “Domani mattina vai a Tunisi”. Io presi il coraggio a due mani e lo affrontai: “Direttore, anche se non te lo ho mai detto, tu sai che sono amica di Craxi, io obbedisco, ma sappi che se devo andar a parlar male di lui non parto. Licenziami pure”. Lui sgrana gli occhi: “No, ho chiamato proprio te perché dobbiamo seguire una linea umanitaria e non manettara nei suoi confronti”.

Io sapevo bene che il mio direttore Peppino, con il quale avevo un rapporto improntato alla fiducia, stima e amicizia, verso Craxi e il Psi aveva sempre mantenuto pur nella critica e la dura polemica da ex comunista un atteggiamento un po’ diverso da quello di altri.

Caldarola era un direttore gentile ma anche severo al tempo stesso. Ripresi fiato.

Il presidente del Consiglio di allora era Massimo D’Alema, vicino a Peppino politicamente e umanamente, impegnato in quei giorni in un tentativo di far tornare Craxi in Italia perché si salvasse la vita. Tentativo sbarrato da Francesco Saverio Borrelli. Tutti hanno sempre pensato che Caldarola nella linea del giornale eseguisse a bacchetta gli ordini del suo amico premier. E invece io che vissi quella vicenda dall’interno posso testimoniare che Peppino non era il tipo da eseguire ordini a bacchetta.

Ex comunista eretico, dotato di una forte autonomia e onestà intellettuale faceva molto anche a modo suo. Fino a telefonare a D’Alema, anche sulla base di una mia informazione, per dirgli che la malattia di Craxi era grave, molto di più di quello che usciva sui giornali.

Lo chiamò a Palazzo Chigi, prima della pubblicazione, per dirgli che aveva già scritto un editoriale in cui chiedeva che Craxi, senza arresto, potesse tornare in Italia a curarsi. Peppino mi disse: “Mi ha risposto con un sospiro e un breve silenzio, poi ha riattaccato. Quando Massimo fa così significa un via libera”. L’editoriale uscì il giorno dopo.

Per quello innanzitutto, ma anche per i miei reportage fummo sommersi da fax giustizialisti. Questo era il mio ultimo direttore di quella che considero l’ultima vera Unità. Vendeva ancora circa 80.000 copie quando venne chiusa e poi riaperta su una linea girotondina, che via via la fece scivolare verso una sorta di supplemento di “La Repubblica”. Né Caldarola né io ci lavorammo più.

Le nostre strade si divisero politicamente, lui sempre un eretico di sinistra io di sinistra non più. Fui poi a Panorama nella mia seconda vita professionale come giornalista politico parlamentare, ma Peppino lo chiamavo spesso. Gli feci interviste su Craxi. L’ultima volta che lo ho sentito tre anni fa, per invitarlo alla presentazione del mio libro “I conti con Craxi” (MaleEdizioni), lo informai che avrei riportato quella frase di Bettino che ci definiva “il giornale dei miei assassini”. Lui mi fece una battuta amara delle sue: “È pure vero”.

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