Era nell’aria da giorni ed alla fine, purtroppo, è arrivata l’umiliazione finale. Avevamo ipotizzato una crisi di ostaggi, come a Teheran nel ’79-80, sono arrivate le bombe.
Pesantissimo il bilancio in termini di vite umane degli attacchi che ieri hanno preso di mira le operazioni di evacuazione in corso all’aeroporto di Kabul: almeno 100 i morti tra gli afghani che cercavano una via di fuga dal regime dei Talebani, 13 i soldati americani caduti (18 feriti) – il giorno più sanguinoso per gli Usa in Afghanistan da oltre 10 anni.
Con la sua incompetenza l’amministrazione Biden è riuscita a trasformare un ritiro – discutibile quanto si vuole, ma pur sempre motivato da un riassetto strategico, non da una sconfitta sul campo – in una disfatta militare e politica; peggio, in una vera e propria umiliazione nazionale.
Troppo ghiotta per i nemici dell’America l’occasione di mostrare al mondo una superpotenza messa in fuga, piegata e umiliata. Non se la sono lasciata sfuggire. L’America subisce un terribile attacco da un gruppo terroristico che opera in un territorio sotto il controllo dei Talebani. Vi ricorda qualcosa? Ieri al-Qaeda, oggi – e guarda caso proprio nel ventennale dell’11 settembre – questa fantomatica Isis-K, ramo afghano dell’Isis, di cui più avanti cercheremo di capire il ruolo. Al potere in Afghanistan di nuovo i Talebani. Corsi e ricorsi storici, ma stavolta si poteva e doveva evitare.
Ma cominciamo dalla fine della giornata di ieri, dalle incredibili dichiarazioni del comandante del CentCom, il generale McKenzie, e dello stesso presidente Biden in una confusa e drammatica conferenza stampa. Dichiarazioni che danno la misura del caos operativo e del fallimento concettuale dei vertici politici e militari Usa.
Fa sapere McKenzie che “i funzionari Usa a Kabul hanno dato ai Talebani una lista di nomi di cittadini americani, titolari di green card e collaboratori afghani a cui garantire l’ingresso al perimetro esterno dell’aeroporto controllato dai militanti”.
Una follia. “In pratica, hanno messo tutti quegli afghani su una lista nera”, ha ben osservato qualcuno.
Seconda incredibile dichiarazione: stiamo comunicando con i Talebani per “assicurarci che sappiano cosa ci aspettiamo che facciano per proteggerci e continueremo a coordinarci con loro”; gli abbiamo parlato di “alcune strade da chiudere intorno a Kabul perché il rischio di un attentato suicida con autobomba da parte dell’Isis-K è alto proprio ora”; è “dal 14 agosto” che condividiamo con i Talebani informazioni di intelligence “per prevenire attacchi suicidi”.
Pur ammettendo di non fidarsi dei Talebani, McKenzie ha poi dichiarato che non c’è “niente che mi convinca” che i Talebani abbiano lasciato che questo attacco dell’Isis-K a Kabul avvenisse. Motivo? Perché “condividono uno scopo comune”, il ritiro Usa entro il 31 agosto.
Interesse comune ribadito anche da Biden in conferenza stampa: “Non ho visto alcuna prova di complicità dei Talebani” negli attacchi, ha detto, difendendo la scelta di fare affidamento sui Talebani per la sicurezza a Kabul e intorno all’aeroporto, perché è anche nei loro interessi contenere l’Isis-K e ottenere il ritiro americano entro il 31 agosto.
Dunque, un dato è ormai accertato per stessa ammissione della Casa Bianca: gli Usa si sono affidati ai Talebani per la sicurezza a Kabul e intorno all’aeroporto. Il loro interesse era sì che il ritiro si compiesse entro il 31 agosto, ma non che tutto filasse liscio.
In realtà, i Talebani e i loro alleati (Rete Haqqani e al-Qaeda) avevano anche tutto l’interesse a mostrare al mondo un’America costretta a scappare dall’Afghanistan sanguinante e umiliata. Ma come, verrebbe da chiedersi, non si fanno ponti d’oro al nemico che fugge? Dipende…
La decisione di Washington di abbandonare la base di Bagram si è rivelata suicida per due motivi. Da una parte, ha reso evidente la irreversibilità del ritiro e della data di uscita: senza Bagram, non c’era più una opzione militare che rendesse credibile una marcia indietro. Dall’altra, senza una base sicura, le truppe Usa rimaste sono state di fatto abbandonate ai loro nemici, circondate in un fazzoletto di pochi chilometri quadrati. La leadership militare e politica Usa ha elaborato e attuato un piano di ritiro che ha messo la sicurezza delle truppe e di tutti coloro che dovevano essere evacuati nelle mani dei Talebani.
Ora, tutta la narrazione è volta ad ‘assolvere’ i Talebani, con punte di assoluta tragicomicità. Da giorni vengono fatti trapelare warning di intelligence molto precisi sugli imminenti attacchi, completi di attribuzione preventiva all’Isis. Nelle dichiarazioni di Biden e del generale McKenzie ieri, ma anche in diversi articoli di stampa, troviamo ogni tipo di sforzo per dipingere i Talebani come ‘collaborativi’, al fine di tentare di giustificare la folle scelta di affidare loro la sicurezza delle truppe e delle operazioni di evacuazione a Kabul, fino al punto di condividere con essi informazioni di intelligence. Anche i Talebani sono nemici giurati dell’Isis-K, sentirete ripetere in continuazione in queste ore, quasi che siano anch’essi vittime del terrorismo jihadista e addirittura nostri potenziali alleati. Una tesi assurda, ma enormemente meno imbarazzante per l’amministrazione Biden che dover ammettere di essersi fidata dei Talebani ed essere stata tradita.
Anche se portati a termine dall’Isis-K, resta difficile infatti immaginare che attacchi di così vasta portata non siano stati facilitati dai Talebani, e soprattutto dalla efficientissima Rete Haqqani, che ha il controllo militare di Kabul e del perimetro dell’aeroporto. Non sarebbe la prima volta che gruppi terroristici in competizione mettono da parte le loro rivalità per colpire l’America. È ormai provata la collaborazione persino tra Iran e al-Qaeda, tra jihadisti sciiti e sunniti.
Come i Talebani, anche la Rete Haqqani è a tutt’oggi affiliata ad al-Qaeda. Per quanto possa apparire incredibile, quindi, l’amministrazione Biden si è fidata della Rete Haqqani e dei Talebani – entrambi alleati di al-Qaeda – nella assurda convinzione che avrebbero impedito attacchi alle truppe Usa, bersaglio facile essendo impegnate nelle operazioni di evacuazione all’aeroporto di Kabul. Una ingenuità clamorosa.
Chi conosce un minimo la storia dell’Afghanistan dalla metà degli anni ’80 sa bene che è un errore tracciare confini netti tra i diversi gruppi jihadisti, che possono a volte apparire in competizione tra loro. Tra tutti questi gruppi c’è in realtà una ampia sovrapposizione, un’area grigia, se non altro perché dietro di essi c’è l’ISI, il potente servizio segreto pachistano, che ha sempre sostenuto i Talebani e la Rete Haqqani nella guerra al governo legittimo afghano (senza che mai le potenze occidentali ne chiedessero conto a Islamabad).
Come ha spiegato ieri il primo consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump, il generale H.R. McMaster, “gli Haqqani smascherano la menzogna che esista una linea netta di demarcazione tra Talebani e altri gruppi jihadisti, in particolare al-Qaeda”. E, ha aggiunto, “non sarei affatto sorpreso – anzi, sarei sorpreso se non fosse così – se l’Isis-K fosse stato usato dalla Rete Haqqani per attaccarci e umiliarci mentre ci ritiriamo”.
Nella rivendicazione di ieri l’Isis-K rivela la sua agenda, la creazione dello Stato islamico del Khorasan in Afghanistan, minaccia ulteriori attacchi e cerca in effetti di delegittimare i Talebani accusandoli di collaborazionismo con gli Usa.
Ma lungi dal boicottare il ritorno al potere dei Talebani, i loro attacchi lo consolidano, come dimostra la narrazione di queste ore, tesa a rappresentarli anch’essi come vittime, quindi implicitamente “moderati” e persino potenziali alleati dell’Occidente nella lotta al terrorismo jihadista dell’Isis. Possibile quindi che, al fine di facilitare un riconoscimento politico del nuovo regime dei Talebani da parte occidentale come ‘male minore’, la Rete Haqqani – e dietro di essa l’ISI – abbia lasciato mano libera all’Isis-K.
Nelle analisi mainstream notiamo scarsa consapevolezza del ruolo della Rete Haqqani, della sua storia, della sua straordinaria continuità nei decenni, della sua estensione e capacità d’azione transnazionale. Un ruolo ricordato ieri da un articolo del Wall Street Journal. Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo di Kabul, la Rete Haqqani, di solito elusiva, “ha assunto un ruolo pubblico” nella capitale afghana. Il suo leader de facto, Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin, il fondatore, ha lavorato a stretto contatto con il luogotenente di Osama bin Laden e i combattenti di al-Qaeda in Afghanistan, secondo i documenti recuperati nel complesso di bin Laden in Pakistan. Oggi Sirajuddin è il capo militare dei Talebani e le sue forze sono state messe al comando della sicurezza di Kabul.
Funzionari afghani, ricorda il Wall Street Journal, hanno accusato per anni la Rete Haqqani di facilitare attacchi mortali contro i civili fornendo all’affiliata locale dello Stato Islamico – la stessa Isis-K che ha rivendicato gli attacchi di ieri – assistenza tecnica e accesso alle reti criminali a Kabul, nonostante Isis e Talebani siano rivali. Attacchi efferati, anche contro donne e bambini, come quello ad un reparto maternità nel maggio 2020.
Un ruolo particolarmente importante intorno all’aeroporto di Kabul, riporta il WSJ, viene svolto da una unità d’élite talebana, Badri 313, “tra le forze meglio addestrate ed equipaggiate che operano in Afghanistan”. I Talebani in questi giorni hanno pubblicato diversi filmati dei loro miliziani a guardia dell’aeroporto con armi ed equipaggiamenti americani. Anche la Rete Haqqani ha una forza chiamata “Esercito Badri”. Alcuni funzionari Usa e funzionari dell’intelligence della ormai defunta Repubblica afghana ritengono si tratti della stessa unità.
Articolo pubblicato su atlanticoquotidiano.it