Boris Johnson è pronto a tutto pur di mantenere l’integrità territoriale del Regno Unito. Con l’Internal Market Bill in discussione da oggi ai Comuni il governo conservatore intende cautelarsi in caso di eventuale no deal al termine delle negoziazioni con Bruxelles per l’accordo di libero scambio che entrerebbe in vigore dal 1° gennaio 2021. La materia del contendere con l’Ue è l’Irlanda del Nord, individuata da Barnier e dai vertici delle istituzioni europee come il grimaldello per punire la reproba Londra dopo l’addio del 2016.
Bruxelles vuole agire andando a minare l’integrità territoriale del Regno Unito su una delle questioni più delicate della storia britannica: quella irlandese, che ancora evoca ricordi tutt’altro che piacevoli a più di una generazione di inglesi e irlandesi. Johnson invece sa che sia da un punto di vista storico, con gli accordi del Venerdì Santo firmati nel 1997 tra Londra e Dublino sotto la supervisione di Washington – che da quello della profondità difensiva il Regno Unito non può permettersi di perdere l’Irlanda del Nord. Perciò i tentativi di Bruxelles di annettere l’Ulster alla sua zona di influenza politico-economica vanno rintuzzati, anche a costo di modificare il Withdrawal Bill approvato ai Comuni nel mese di dicembre.
Cinque ex Primi Ministri e anche diversi parlamentari conservatori hanno espresso dubbi riguardo alla modifica unilaterale proposta dal Governo a meno di un anno dalla ratifica dell’accordo con l’Unione che Johnson aveva definito “pronto a essere infornato” in caso di sua vittoria elettorale. In realtà, per quanto questa giravolta in tempi brevissimi sia stata piuttosto sorprendente, Johnson può fare valere il principio costituzionale della “sovranità del Parlamento”, che guida la vita delle istituzioni pubbliche britanniche da sempre: “quello che il Parlamento fa nessuna autorità sulla terra può disfare”. Perciò così come Westminster ha ratificato l’accordo nel dicembre 2019, Westminster può abrogarlo o modificarlo quando vuole. E non ci sono minacce legali che tengano ovviamente se il Parlamento di una delle due controparti vota a maggioranza per l’abrogazione. Non è in fondo per questo che Londra è uscita dall’Ue?
In realtà, Bruxelles sta anche pensando di usare la Scozia per indebolire il Regno Unito. La First Minister Sturgeon ha annunciato che entro la fine del 2020 verrà presentato il cronoprogramma legislativo per il secondo referendum sull’indipendenza – IndyRef2 – dopo quello fallito del 2014. A suo giudizio la Brexit ha determinato un cambiamento costituzionale che rende di nuovo plausibile l’ipotesi, avvalorata dal fatto che in Scozia il Remain ottenne molti più voti del Leave. Johnson ha già risposto ufficialmente a Sturgeon affermando che nel 2014 il referendum fu definito dagli stessi leader dell’SNP – Salmond e Sturgeon – “il voto che avrebbe definito la questione per una generazione” e che nel 2016 il voto sulla Brexit interessò tutto il Regno Unito, essendo la politica estera una delle materie che fanno capo al Parlamento di Westminster e non a quello di Holyrood.
Una Scozia eventualmente indipendente sarebbe destinata a chiedere l’ingresso nell’Ue secondo Sturgeon, una volta adeguatasi ai Criteri di Copenhagen. C’è però un piccolo grande problema: Bruxelles soffia sull’indipendentismo scozzese (che nel 2014 combatteva) ma sopprime quello catalano che minaccia l’integrità territoriale spagnola. Come voterebbe la Spagna in vista della richiesta d’ingresso scozzese nell’Unione considerando che serve il voto favorevole di tutti e 27 gli Stati? Una domanda che in molti iniziano a farsi anche a Madrid.