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Vi racconto la (tormentata) nascita della Repubblica italiana

Come è nata la Repubblica italiana. Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Il 2 (e 3 giugno) 1946 gli italiani si mettono disciplinatamente in coda davanti ai seggi. La scheda elettorale che si trovano tra le mani è semplice, con un titolo sintetico (“Referendum sulla forma istituzionale dello Stato”) e due simboli chiari. Sulla sinistra, il profilo della penisola e al centro una testa di donna con una corona turrita ornata di foglie di lauro e di quercia: sopra, la parola “Repubblica”. Sulla destra, un profilo della penisola pressoché identico all’altro e nel centro lo stemma sabaudo (lo scudo con la croce bianca): sopra, la parola “Monarchia”.

Quando le urne si chiudono, al neonato suffragio universale partecipano quasi venticinque milioni di votanti (di cui tredici milioni donne), il 90 per cento degli aventi diritto. Ma il conteggio è lento e fornisce risultati sensibilmente diversi da quelli attesi: anziché una travolgente vittoria repubblicana, una vittoria controversa e un paese geograficamente spaccato in due: il Sud monarchico, il Centronord repubblicano. Per di più, i risultati arrivano al Viminale in ritardo. I più tempestivi sono quelli delle regioni meridionali, dove la guerra era finita da tempo ed era stato possibile ripristinare telegrafi e linee telefoniche. I dati sono frammentari e ufficiosi, ma alcuni quotidiani si sbilanciano annunciando il probabile successo della monarchia.

Lo stesso presidente del Consiglio Alcide De Gasperi pensa che il re ce l’abbia fatta. Le percentuali cambiano nel corso della notte tra il 4 e il 5 giugno, quando affluiscono tutti i dati del Nord: 54 per cento alla repubblica e 46 per cento alla monarchia, uno scarto di circa un milione e settecentomila voti. La proclamazione del risultato spetta alla Cassazione, ma il “ribaltone” è un calice amaro per i perdenti: serpeggiano le prime voci di brogli. Il ministro dell’Interno Giuseppe Romita viene accusato di aver manipolato i dati e di aver nascosto nei cassetti del Viminale un milione di schede prevotate per la Repubblica.

L’esito del referendum spiazza comunque i partiti del Comitato di liberazione nazionale (tutti filorepubblicani, escluso quello liberale). Erano infatti convinti che gli elettori avrebbero duramente punito la “fellonia” di Vittorio Emanuele III (copyright di Palmiro Togliatti): il fascismo, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler, un conflitto bellico rovinoso, l’8 settembre 1943, la fuga a Pescara.

Qui entrano in scena le masse napoletane. Il 6 giugno il loro risveglio è brusco: mentre otto su dieci elettori avevano scelto la monarchia (superati soltanto dai messinesi, catanesi e palermitani), la maggioranza degli italiani aveva optato per la repubblica. La prefettura partenopea è preoccupata dall’eventualità di disordini, anche perché la regina Maria José e i quattro figli il giorno precedente si erano trasferiti a Villa Rosebery, in attesa di imbarcarsi per il Portogallo sull’incrociatore “Duca degli Abruzzi”. La famiglia reale viene pertanto invitata a lasciare Napoli alle prime luci dell’alba. Il clima si surriscalda a metà pomeriggio, quando in piazza del Carmine una ressa di donne comincia a lanciare insulti contro i repubblicani “affamatori del popolo”. Successivamente si scatena è una vera guerriglia urbana, un’esperienza inusuale in un paese abituato da un ventennio ad assistere solamente a disciplinate marce di regime.

La scintilla scoccata a Napoli può incendiare la penisola. I primi a esserne consapevoli sono gli inglesi e gli americani, che attraverso l’ACC (“Allied Control Commission”) vigilano attentamente sugli avvenimenti. Il capo della Commissione, l’ammiraglio Ellery Stone, la sera del 6 giugno sollecita De Gasperi e Romita ad adottare tutte le misure necessarie a reprimere con severità ogni atto sedizioso. Nella mattina del giorno successivo questa “raccomandazione” viene messa alla prova. Sui muri del capoluogo campano vengono affissi manifesti firmati da un fantomatico “schieramento monarchico”, in cui si invoca la separazione di Napoli dall’Italia e la creazione di uno Stato indipendente guidato da Umberto II. Verso mezzogiorno un migliaio di persone inneggianti alla monarchia si raduna in piazza Carlo III. In un battibaleno si forma un corteo enorme, che muove verso la ferrovia e prosegue verso il Rettifilo scandendo “Vi-va-il-re” e slogan contro la “truffa del referendum”. Ci sono studenti universitari, bottegai, artigiani, manovali edili, braccianti, sfaccendati senza mestiere e perfino qualche intellettuale.

L’iniziativa, in cui si distinguono i militanti dei “Gruppi Savoia”, la più combattiva tra le associazioni monarchiche partenopee, da testimonianza di fede si trasforma rapidamente in un’esibizione muscolare. Giunto nei pressi dell’Università, il corteo viene fronteggiato da uno sbarramento di polizia e carabinieri. Prima fischi e urla, poi l’esplosione di una bomba a mano sulla facciata dell’Albergo Nazionale. La folla ondeggia paurosamente. Un soldato, in preda al panico, lascia partire un proiettile dal suo moschetto che gli squarcia il petto.

L’incidente esaspera gli animi. Si odono ripetute scariche di fucileria in aria. I dimostranti, ormai molte migliaia, formano allora due nuovi cortei: il più grande si dirige verso via Roma, il secondo raggiunge piazza del Plebiscito. Tutto il centro di Napoli è bloccato. Il commissariato di sezione Mercato viene attaccato da un manipolo di violenti. Gli scontri sono assai aspri. I feriti riempiono le corsie degli ospedali. Un diciassettenne, facchino al porto, giace a terra con l’addome perforato da un proiettile. Intanto giungono notizie di altri tafferugli scoppiati a Palermo, Bari e Taranto. “Alla fine di quella lunga giornata napoletana — osserva Romita — nessuno poteva giurare su che cosa sarebbe accaduto l’indomani”.

Nel frattempo, Umberto II — pressato dai suoi più stretti consiglieri — cerca di resistere e attende il pronunciamento della Cassazione. Il governo, invece, ha fretta e vuole mettere i giudici di fronte al fatto compiuto. La temperatura politica del paese sale vertiginosamente. E le conseguenze non si fanno aspettare. Sempre a Napoli, l’11 giugno gli attivisti monarchici scendono nuovamente in campo. Il teatro principale degli scontri è adesso via Medina, dove è ubicata la sede della federazione comunista. Per impedirne la devastazione, alcuni agenti sparano sui manifestanti più risoluti. Uno di loro, Mario Fioretti, viene colpito a morte. Il movimento di protesta si trasforma in un esplicito movimento di tipo insurrezionale. Segue una guerriglia selvaggia e furibonda, durata più di tre ore: auto incendiate, vagoni tranviari rovesciati, trincee di fortuna nei viottoli circostanti.

La situazione si fa particolarmente critica per i militanti comunisti asserragliati nei locali della federazione, tra i quali c’è un giovanissimo Giorgio Napolitano. Giorgio Amendola, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio, preme sulle autorità cittadine per un intervento ancora più energico. La notte trascorre tra le sirene delle ambulanze e il rumore sordo delle autoblinde. Il bilancio viene stilato dalla questura il mattino seguente: sette ragazzi morti, tutti sotto i venticinque anni; settantuno i feriti ricoverati in ospedale, ventidue dei quali poliziotti, carabinieri e militari. Nei giorni successivi ci saranno altri decessi, per un totale di undici morti, nove civili e due agenti.

Il 13 giugno Umberto II rientra al Quirinale dall’alloggio di via Verona. De Gasperi è stato appena avvertito della sua decisione di lasciare l’Italia. La partenza per l’esilio portoghese è però accompagnata da un proclama, che l’Ansa trasmette in serata. In esso il “re di maggio” accusa il governo da avere assunto “con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano”, e di averlo “posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza”. Il 16 giugno i giornali non parlano più di Umberto II, del referendum e dei morti di Napoli. I titoli sono tutti per lo sconosciuto ciclista triestino Giordano Cottur: ha staccato gli avversari sulla salita di Superga, indossando la prima maglia rosa del “Giro della rinascita”.

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